Le parole chiarissime di Donald Trump, ripetute più volte durante il suo viaggio mediorientale, relative all’intenzione, al desiderio della Casa Bianca di trovare, alle sue condizioni, un accordo con l’Iran, legittimano l’indiscrezione circolata in questi giorni da alcune fonti: è in via di preparazione un nuovo round negoziale in Oman tra Stati Uniti e Iran? E’ possibile ed è anche chiaro cosa viglia la Casa Bianca: ottenere una rinuncia al progetto nucleare e avviare così una fase tutta nuova, che porti al superamento del cosiddetto “fronte della resistenza”, armato e finanziato dal’Iran un tempo in Iraq, Siria, Libano e Yemen e oggi ridotto su scala molto minore e privato certamente della centrale e decisiva Siria. Senza questo tassello, gli altri, tutti enormemente indeboliti, hanno certamente vita dura. In definitiva Trump chiederebbe all’Iran di passare dallo slogan “Morte all’America, morte a Israele” allo slogan “Lunga vita all’Iran”?
Vista così la strategia potrebbe non solo avere senso, ma anche incontrare consensi in un Paese stremato come l’Iran, da mille emergenze, non ultima quella idrica. Possono ancora illudersi gli ayatollah di controllare i veli delle iraniane, definito a suo tempo da Khomeini la bandiera dell’Iran rivoluzionario, ora che non controllano il loro spazio aereo, come dimostrato dalla recente guerra che ha colpito le sue città e le sue installazioni nucleari? Che la valuta iraniana sia la più svalutata al mondo è noto, ma quale potrebbe essere l’ostacolo a procedere dal punto di vista iraniano? L’orgoglio? Può reggere in queste condizioni il regime o non accordarsi potrebbe addirittura facilitarne la caduta?
Benché Khomeini avesse messe in chiaro che la monarchia è un sistema anti-islamico, convinzione dalla quale fece scaturire l’ircocervo della Repubblica teocratica, l’ayatollah Ali Khamenei sa bene che il suo tempo più prima che poi scadrà. Classe ’39, da tempo malato, Khamenei è arrivato al potere negli anni del crollo del muro di Berlino ed ha sempre visto in Gorbaciov l’esempio da non seguire: ogni riforma di un regime sarebbe una falla, subito o in prospettiva. E quindi la sua linea è sempre stata rigorista: nessun cambiamento, nessun cedimento all’oltranzismo.
Ora che saprà che il suo tempo sta scadendo, si dicono gli ottimisti, considererà che lui deve preparare un terreno diverso per il futuro, che potrebbe chiamarsi con il nome di suo figlio, Mojtaba Hosseini Khamenei. Chierico privo di status e storia, viene indicato da chi sa, o da chi non sa, come un possibile successore da molto tempo. Ad avvalorare questa tesi c’è una curiosa campagna sui social iraniani che lo associa al giovane e affermatissimo principe della corona saudita: bin Salman, figlio di re Salman, monarca regnante, più proforma che altro. Mojtaba sarebbe il bin Salman iraniano. Anche bin Salman non aveva status né storia, ma governa e con successo. Il punto debole di questa narrativa è che dimostra che il cambiamento è più forte della continuità. Siccome chi la propone è, o sarebbe, tetragono continuista, la campagna non sembra funzionare. Così i pessimisti ritengono che Khamenei, contrario a ogni cambiamento dall’inizio della sua leadership ben dentro il Novecento, non si schioderà, lui morirà all’ombra dello slogan “Morte all’America, morta a Israele”, non darà il via a un processo che porterebbe allo slogan “Lunga vita all’Iran”. Potrebbe però farlo qualcun altro.
E qui la questione assume un nome misterioso e ambiguo: pasdaran, più chiaramente definiti dal loro appellativo di “guardiani della rivoluzioni”. Sarebbero ormai, per alcuni, i guardiani di sé stessi, essendo il popolo ormai molto lontano dai rivoluzionari, e gli ayatollah in crisi di rappresentanza. Potrebbero dunque pensare a mettersi in linea con i tempi favorendo una svolta nazionalista. Un tempo ritenuti invincibili, i pasdaran sono stati sconfitti su più fronti esterni all’Iran, ma detengono le leve del potere economico in patria con il loro apparato militar-industriale e non vorranno perderle. Il nazionalismo è un collante forte e vincente di questi tempi, potrebbe corrispondere all’identikit del potenziale negoziatore con Trump.
Il loro modello potrebbe essere Vladimir Putin nell’apertura ad un accordo possibile, o il coreano Kim Jong-Un in caso di fallimento. Attenti alle sorti personali e famigliari più che a quelle popolari, potrebbero scegliere entrambe le strade, lasciando da parte il velo e i rigori islamisti che invece Mojtaba, chierico pur a loro vicino, avrebbe più difficoltà ad abbandonare.
C’è ovviamente lo via cinese davanti ai nazionalisti per l’intesa. Il partito lì è rimasto unico, ma è cambiata l’economia, il miracolo cinese agli occhi dei ex-poveri è certamente tale. Khamanei non è stato un Deng Xiaping, certamente no, ma forse dalle file dei pasdaran qualcuno potrebbe pensare che quella sia la ricetta giusta. Ma per affermarsi questo ipotetico nazionalista pragmatico deve attendere la fine del tempo di Khamenei? Emerso dalle macerie dei suoi bunker dopo la campagna aerea israleo-americana, quale immagine di sé vorrà consegnare alla storia? Quella dell’uomo che ha resistito fino in fondo o quella del leader che ha aperto al nuovo ma dopo una bruciante sconfitta, che sebbene sia negata è evidente?
Che l’Iran sia nel guado sembrerebbe a tutti evidente per via di quanto accaduto a Sharm el-Sheikh. Dopo aver dato il suo appoggio alla linea accordista dentro Hamas, l’Iran è stato invitato a Sharm. Il presidente della Repubblica, Pezeshkian, ha detto “io non vengo”, ma ha anche girato l’invito al suo ministro degli esteri, Abbas Araghchi. Lui ha taciuto per giorni, e solo all’ultimo momento ha ufficialmente declinato l’invito, in coincidenza con i momenti in cui sembrava che a Sharm ci andasse anche Netanyahu, ipotesi poi tramontata. Ma a quel punto, se fosse stato questo il motivo del rifiuto, era troppo tardi per cambiare orientamento.
Khamenei ha detto no all’onda verde dopo la rielezione truffa di Ahmadinejad, ha detto no al movimento “donna, vita, libertà” dopo il brutale assassinio di Masha Amini per una ciocca scoperta di capelli, ora vede in ciò che resta dei pasdaran con cui ha gestito questi anni di feroce repressione un conglomerato di affaristi che come tutti gli affaristi possono accordarsi come combattersi.
Khamenei deve decidere quale ritenga preferibile come scena finale del suo esercizio del potere?