Un mistero tra ghiaccio e memoria collettiva, dove la politica incontra il noir in una Reykjavik piena di segreti
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Un mistero tra ghiaccio e memoria collettiva, dove la politica incontra il noir in una Reykjavik piena di segreti

Con Reykjavík, scritto con Katrín Jakobsdóttir, Ragnar Jónasson racconta un cold case islandese che diventa ritratto suggestivo di un Paese sospeso tra gelo, isolamento e poesia.

Un mistero tra ghiaccio e memoria collettiva, dove la politica incontra il noir in una Reykjavik piena di segreti
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18 Ottobre 2025 - 20.27


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di Rock Reynolds

Non sussistono più molti dubbi: il noirista Ragnar Jónasson è uno dei migliori. Non uno dei migliori esponenti del giallo scandinavo e nemmeno del thriller islandese, pur essendo il cofondatore di Iceland Noir, un festival del giallo nordico.

Ragnar Jónasson è uno dei migliori autori di crime story in assoluto. Un onore non da poco, considerato che l’Islanda è un’isola quattro volte più grande della Sicilia e dieci volte meno popolosa, con i suoi circa 400.000 abitanti. Eppure – non fosse che di beati non devono essercene stati tanti nella sua storia – forse sarebbe il caso di intestarle la dicitura di paese di poeti, santi e navigatori a noi italiani tanto cara, perché non credo che esista al mondo un’altra nazione che può vantare la stessa densità di letterati e artisti, oltre che di pescatori.

Con il suo sottosuolo costantemente in subbuglio e la sua unicità nello scontro perenne tra ghiacciai e vulcani attivi, l’Islanda pare uno scherzo del Big Bang, abbandonata com’è nell’Atlantico del nord, poco sotto il circolo polare artico, per sua fortuna riscaldata leggermente dalle estreme propaggini della corrente del golfo.

Il paese fa dell’isolamento il suo punto di forza e la sua croce perenne, non certo mitigata da un clima decisamente estremo. E tale senso di straniamento ineludibile è, forse, il tratto più vistoso del paese, insieme alle sue straordinarie bellezze naturali e alla curiosità di un popolo che aspira a far sapere al mondo che esiste, che ha qualcosa da raccontare, che non è una non-entità.

In realtà, gli islandesi hanno sempre avuto tanto da dire e lo hanno fatto con le antiche saghe che rappresentano l’ossatura della loro cultura e che hanno ispirato decine di narratori, tra cui spicca ovviamente Halldór Laxness, premio Nobel per la letteratura nel 1955.

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Reykjavík (Marsilio, traduzione di Irene Gandolfi, pagg 266, euro 18,00) è uno splendido noir scritto a quattro mani da Ragnar Jónasson e da Katrín Jakobsdóttir, primo ministro islandese dal 2017 al 2024. I due, coetanei, hanno deciso di raccontare insieme una storia nei mesi di forzata inattività pubblica per via del Covid, un modo per passare il tempo e rimuginare su un periodo caro a entrambi, gli anni Ottanta, nel corso del quale (per la precisione nel 1986) si svolse proprio a Reykjavík il vertice storico tra Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov che, in qualche maniera, segnò la fine della Guerra fredda, consentendo all’Islanda di rivendicare per la prima volta la propria esistenza al di là del puntino sul mappamondo che la rappresenta.

Riuscite a immaginarvi Giorgia Meloni che, costretta dalle circostanze a prendersi un periodo di parziale riposo – nel caso di Katrín Jakobsdóttir, la terribile pandemia – si mette a scrivere un romanzo per ammazzare il tempo? Io faccio un po’ fatica, lo ammetto. Ma questa, per l’appunto, è l’Islanda, uno staterello in cui incontrare il presidente al bar mentre prende il primo caffè della mattina o la cantante Bjork in una libreria è quasi la norma. Così come lo è discettare di cultura e filosofia sulla strada o, appunto, in una caffetteria. È pure il paese in cui fino al 1989 era in vigore il divieto di produrre, vendere e bere birra. Quando tale divieto fu tolto, il paese fece festa e il giorno della ritrovata libertà di gustarsi una – due, tre, quattro, eccetera – birra divenne una ricorrenza nazionale. Chiunque visiti il paese avrà qualche difficoltà a immaginarselo prima che tale divieto venisse cancellato: nel fine settimana, soprattutto il venerdì, il laborioso popolo islandese si abbandona ai bagordi più sfrenati (il cosiddetto rúntur), sotto l’occhio attento e, forse, persino compiaciuto di una polizia che ha la consegna di lasciar correre se non si travalica. Ora, il confine dell’esagerazione è alquanto labile e si ha davvero la sensazione che i freni dovuti a isolamento, solitudine e grigiore svaniscano del tutto tra fumi di alcol e di svariate sostanze stupefacenti.

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A differenza di Arnaldur Indriðason, creatore del fantastico commissario Erlendur Sveinsson nonché senza discussione l’autore islandese più popolare al mondo in questo momento, le storie di Ragnar Jónasson non mettono necessariamente lo sballo e la depressione al primo posto. Eppure, è proprio con Arnaldur Indriðason che Ragnar Jónasson si contende ormai da anni la palma di miglior giallista islandese. Persino in Reykjavík – quindi scrivendo a quattro mani insieme a Katrín Jakobsdóttir – le sue storie mantengono una patina di leggerezza in più rispetto a quelle, pur splendidamente scritte e congeniate, di Indriðason.

Nel caso di Reykjavík, la storia ruota intorno alla sparizione di una ragazza di quindici anni trasferitasi nel 1956 sull’isolotto di Viðey, poco più di uno scoglio al largo di Reykjavík, per lavorare come domestica nella casa di una coppia abbiente. L’indagine al tempo si era interrotta perché sembrava che la ragazza si fosse letteralmente smaterializzata, precipitando la nazione e la famiglia nell’angoscia di non sapere se la ragazza fosse viva o morta. L’ostinazione di un giovane cronista restituisce vigore a una vicenda di cui la popolazione non si è mai scordata, ma che è finita nel cassetto dei casi irrisolti della polizia. Il resto non posso raccontarlo perché toglierei pathos a una lettura che risulta avvincente e pure, a tratti, commovente.

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Anche stavolta, come ci ha abituato nella fortunata serie del detective Ari Þór, Jónasson non fa ricorso a giochi pirotecnici o ad avventate capriole narrative per tenere alta la tensione: la storia procede senza strappi, ma la suspense c’è dalla prima all’ultima pagina. Eppure, essendo stata realizzata a quattro mani, Jónasson e la sua compagna di scrittura Jakobsdóttir, ci ricordano che, per far quadrare i conti della vicenda, non sono mancati conflitti e polemici scambi di idee. Su una cosa i due si sono trovati d’accordo fin dal primo momento: Agatha Christie come origine della passione di entrambi per i racconti polizieschi. Non è un caso che il romanzo Reykjavík sia dedicato proprio alla regina internazionale del giallo.

Attenzione, però, oltre alla passione comune per la mamma di Hercule Poirot e Miss Marple, non c’è granché della Christie in Reykjavík. L’amore condiviso per la città (l’unica dell’isola, sempre che non si scelga di definire allo stesso modo anche Akureyri, paesone di 20.000 abitanti nell’estremo nord), per la natura, per il clima instabile e lo stile di vita scandito dalle sue bizze sono le fondamenta di una vicenda su cui si incastonano le storie di quotidiana banalità che, da sempre, rappresentano il sale della vita ovunque ci si trovi.

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