Restare umani davanti al massacro di Gaza: schierarsi con gli oppressi non è faziosità ma dovere morale
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Restare umani davanti al massacro di Gaza: schierarsi con gli oppressi non è faziosità ma dovere morale

Con la popolazione di Gaza è schierata idealmente la parte migliore del mondo, quella che antepone a qualsiasi altro discorso le ragioni umanitarie, anzi, le ragioni umane

Restare umani davanti al massacro di Gaza: schierarsi con gli oppressi non è faziosità ma dovere morale
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Seba Pezzani Modifica articolo

8 Novembre 2025 - 22.03


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Di guerre mediatiche ce ne sono ormai state tante. Ma ciò che si sta dipanando a Gaza davanti agli occhi del mondo dal 7 ottobre 2023 è qualcosa che viene narrato in diretta, quotidianamente, minuto per minuto. A farne il resoconto non è la solita propaganda di una o dell’altra parte coinvolte: a raccontarcelo è la popolazione stessa, senza filtri.

Eppure, non passa giorno che si non senta qualcuno asserire con forza che è sbagliato assumere una posizione, che è necessario continuare a restare neutrali per poter prendere coscienza della realtà e non lasciarsi fuorviare dai particolarismi. Sono convinto dell’esatto contrario: schierarsi è fondamentale e indica un atteggiamento di apertura e umanità, non di faziosità irrazionale. È proprio l’abbondanza di informazioni di prima mano a dare a tutti gli strumenti per orientarsi nel marasma di fake news e comunicati propagandistici. Mantenere la dovuta empatia è l’unica strada. Peraltro – e, in un mondo serio, non ci sarebbe nemmeno il bisogno di ribadirlo – restare umani significa stare con la popolazione civile di Gaza, con gli oppressi. E stare dalla parte dei deboli non equivale a essere antisemiti e nemmeno a stare con Hamas che, ci piaccia o meno, resta un interlocutore da non trascurare, essendo riuscito ad assicurarsi negli anni il sostegno di una fetta considerevole della popolazione palestinese: Hamas è stato sostanzialmente l’unico a mantenere la questione palestinese sull’agenda della politica internazionale, a consentire alle istanze del suo popolo di essere rivendicate con forza.

D’accordo, è probabile che una fetta consistente della popolazione palestinese fosse poco in sintonia con le imposizioni e i soprusi di Hamas prima del 7 ottobre 2023 e che, dopo gli attacchi di quel giorno e le apocalittiche rappresaglie israeliane, oggi la sia ancor meno.

La stessa Autorità Palestinese, prima dell’avvento di Hamas, si era distinta per corruzione e violenze. E Israele, finché gli ha fatto comodo, ha contribuito a seminare zizzania tra i potentati locali e a dividere il nemico. Ma c’è una parte, a sua volta non minoritaria, della popolazione palestinese che Hamas continua a sostenerla, soprattutto a Gaza. Lo dimostrano i numeri: malgrado Israele sbandieri ai quattro venti il successo delle sue operazioni a Gaza, – sostenendo ogni volta di aver “quasi annientato Hamas”, ma finendo per ammantare regolarmente quel “quasi” di ulteriore, inquietante falsità – ogni giorno davanti ai centri di reclutamento dell’organizzazione islamista c’è una lunga fila di ragazzini.

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Perché questo è ciò che l’odio crea. È accaduta la stessa cosa nell’Irlanda del Nord, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta: a ogni abuso dell’esercito inglese, il popolo rispondeva con un’adesione superiore alla lotta armata. Nessuno con un minimo di sale in zucca potrebbe negare quanto terribile sia stato l’eccidio del 7 ottobre 2023: una strage indiscriminata di giovani che ballano – malgrado l’idea di organizzare un rave party accanto al muro che separa Gaza dal mondo libero a me sembri una provocazione forte – non è una scelta edificante. Esattamente come non è difendibile sparare su famiglie in coda per ritirare i pochi rifornimenti alimentari nei punti di distribuzione, fare fuoco sugli operatori sanitari e sui malati ospedalieri, sulla stampa e via dicendo: ora e da molti decenni, praticamente dal 1948.

E, comunque, chiunque abbia un minimo di nozioni di geopolitica e storia sa bene che la guerra – sempre che si voglia usare questo termine per indicare lo scontro impari tra uno degli eserciti meglio equipaggiati e meglio addestrati del mondo e un manipolo di miliziani male armati – non è iniziata il 7 ottobre 2023. Oggi Israele ha un solo vero alleato, gli Stati Uniti. E gli Stati Uniti, proclami a parte, hanno un solo vero alleato, Israele.

Non l’Europa, non i paesi arabi con cui ha ripreso le relazioni, certamente non con Russia e Cina. Persino l’amicizia storica e assodata con la Gran Bretagna scricchiola. Invece, con la popolazione di Gaza è schierata idealmente la parte migliore del mondo, quella che antepone a qualsiasi altro discorso le ragioni umanitarie, anzi, le ragioni umane. Cercare di restare umani di fronte allo scempio di cui l’uomo sa rendersi protagonista traccia un solco ineludibile tra il giusto e lo sbagliato.

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Questo non assolve Hamas o qualsiasi altro gruppo paramilitare dai crimini commessi, ma è ora di essere seri nelle nostre analisi: se quello in corso è un conflitto, le due parti coinvolte lo portano avanti con i mezzi che a esse sono proprie. Se un conflitto non è, le origini delle nefandezze che insanguinano la Terra Santa sono antiche e hanno un’origine inequivocabile: l’occupazione israeliana di terre abitate dai palestinesi, la loro espulsione, il loro confinamento in enclavi segregate, la negazione di diritti essenziali, l’umiliazione quotidiana e, non ultima, la costrizione a far parte di uno stato confessionale.

A noi occidentali, in particolare a noi europei, piace riempirci la bocca con la parola sharia, la legge islamica. Meno ci aggrada ammettere che lo Stato di Israele è una nazione confessionale in cui vige una legge religiosa, quella biblica, che rende chiunque non si professi ebreo un cittadino di serie B. E, guarda caso, i palestinesi risiedenti per caso o per costrizione dentro i confini di Israele sono per lo più musulmani. Naturalmente – e anche in questo caso non servirebbe neppure spendere parole per spiegarlo – non tutti i miliziani che lottano per i diritti del proprio popolo o per qualsiasi altra causa ritenuta nobile sono stinchi di santo: nei grandi movimenti, qualcuno che non disponga di quelle stimmate non manca mai. Perché il male esiste e si annida persino tra le pieghe delle cose più edificanti. Di personaggi dalla coscienza poco pulita ce ne sono stati in tutte le guerre di liberazione dal giogo coloniale: nell’ETA, nell’IRA, tra le Tigri Tamil e persino tra  i guerriglieri che combatterono al fianco di Che Guevara in America Latina, giusto per fare qualche esempio.

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Ma attenzione a non aderire alla solita narrazione colonialista che chiama terrorista chiunque si opponga alle imposizioni dell’occupante: trasformare in vittime gli aggressori. L’atteggiamento vittimista di Israele è stato ampiamente smascherato. Da tempo si fatica a scorgere un lumicino di speranza per un’umanità più umana: l’assuefazione alla brutalità ha superato i livelli di guardia. A New York, forse la città più ebrea del mondo, è appena stato eletto un sindaco musulmano che, fino a poco tempo fa, partecipava a marce di studenti universitari pro-Palestina. La sua vittoria elettorale non significa tanto a livello assoluto e forse, ancor meno, a livello statunitense, considerato che le elezioni presidenziali negli USA non si vincono certo a New York, sulle due coste e nelle grandi città.

Ma è chiaro che, per eleggerlo, qualche voto ebreo – probabilmente parecchi voti – deve averlo preso. Dunque, mi pare improbabile che il suo parlare chiaro abbia spaventato un elettorato tradizionalmente fedele a Israele, malgrado viva quasi agli antipodi. Se a prevalere, come sembra sia accaduto in queste elezioni a New York, è anche e soprattutto un ragionamento umanitario, siamo di fronte alla politica con la A maiuscola: non solo soldi e sicurezza, i due classici cavalli di troia del pensiero fascista. Per quello che vale il mio giudizio, quando una popolazione è soggetta a una tragedia di proporzioni simili a quella che è tuttora in corso a Gaza e, in proporzioni meno vistose ma altrettanto preoccupanti, in Cisgiordania, il discorso politico non può non essere umanitario, da qualunque parte stia la ragione. E avrete capito che sono convinto che le ragioni stiano dalla parte dei deboli e, in questo caso, di quella del popolo vessato, colonizzato, segregato, occupato, affamato, umiliato e bombardato.

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