Così la destra ha trasformato Israele in uno Stato caserma
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Così la destra ha trasformato Israele in uno Stato caserma

Era sorto per essere il focolare del popolo ebraico sopravvissuto alla Shoah. La destra lo ha trasformato in uno “Stato caserma”

Così la destra ha trasformato Israele in uno Stato caserma
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

9 Novembre 2025 - 19.00


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Era sorto per essere il focolare del popolo ebraico sopravvissuto alla Shoah. La destra lo ha trasformato in uno “Stato caserma”. Una trasformazione a 360 gradi, non solo politico-militare, ma culturale, identitaria. Per cogliere questa mutazione “genetica” d’Israele aiuta molto la ricostruzione storico-politica operata su Haaretz da Nevo Spiegel, dottorando presso il Cohn Institute for the History and Philosophy of Science and Ideas dell’Università di Tel Aviv e ricercatore presso il Molad – Centro per il rinnovamento della democrazia israeliana.

Lo Stato caserma

Scrive Spiegel: “L’Occidente non riesce a capire gli israeliani. Durante i due anni di guerra nella Striscia di Gaza, sono arrivate un sacco di proposte dalle capitali occidentali e arabe per fermare i combattimenti. In tutte queste proposte, la fine della guerra era vista come un punto di partenza per risolvere il conflitto israelo-palestinese e, in gran parte, l’intero conflitto israelo-arabo. Eppure, durante quei due anni, chi ha fatto queste proposte continuava a chiedersi: perché le reazioni della classe politica israeliana sono state così deboli, e persino negative?

Forse questo può essere attribuito a una generale sfiducia nei confronti dei palestinesi. Ma non è più questo il punto. In passato, la destra e la sinistra erano divise sulla possibilità di trovare una soluzione al conflitto. Oggi, invece, l’opinione pubblica israeliana ha capito che il conflitto non è più una questione politica o una lotta tra interessi opposti. È visto come una questione metafisica, radicata nell’essenza stessa sia nostra che dei palestinesi, e quindi irrisolvibile.

La destra ci dice che siamo speciali. Offre una metafisica in cui gli ebrei sono i protagonisti della grande narrazione del mondo. Ma se noi siamo speciali, allora anche i nostri nemici, i palestinesi, devono essere speciali. E se entrambe le parti sono speciali, allora le regole normali non valgono più. Questo conflitto, quindi, non assomiglia a nessun altro conflitto e, per questo motivo, non ha soluzione.

La destra è riuscita a trasformare la realtà anomala del perpetuo conflitto  in un’ideologia. Dopo tanti anni, gran parte dell’opinione pubblica israeliana non cerca più la normalità, ma la teme. La risposta sia al colpo di Stato giudiziario che alla guerra a Gaza deve essere anti-metafisica: una richiesta di normalità, di un mondo che non sia incantato, un mondo senza angeli o demoni, ma piuttosto persone imperfette che hanno bisogno di soluzioni.

L’eccezionalismo è la convinzione che il gruppo a cui si appartiene sia unico nel suo genere, sui generis. Di per sé, l’eccezionalismo non è necessariamente negativo. Ogni nazione, in una certa misura, racconta a se stessa una storia speciale per definire chi è e cosa la distingue. I popoli guardano al loro passato alla ricerca di una narrazione unificante che sia solo loro. Come ha scritto l’intellettuale francese Ernest Renan nel suo classico studio sulla nazionalità: “Avere glorie comuni nel passato e avere una volontà comune nel presente; aver compiuto grandi imprese insieme, desiderare di compierne ancora di più: queste sono le condizioni essenziali per essere un popolo”. “

La storia nazionale americana, per esempio, è intrisa di eccezionalità: l’idea degli Stati Uniti come” città sulla collina“. Questo sentimento ha ispirato progetti nazionali positivi, ma anche negativi, come l’ideologia del” destino manifesto” e l’aggressiva espansione verso ovest fino al Pacifico.

L’eccezionalità mescolata all’essenzialismo metafisico, tuttavia, è sempre negativa. Vede il gruppo nazionale come una categoria separata della natura, dotata di un carattere eccezionale, e ciò che è eccezionale, secondo questa logica, non è vincolato dagli stessi standard di tutti gli altri. L’esempio più estremo è il Sonderweg (“percorso speciale”) che i pensatori reazionari attribuivano alla Germania: l’idea che il popolo tedesco non potesse mai diventare democratico come le altre nazioni. Questa fede nel loro destino speciale alla fine si è trasformata nell’ideologia omicida del nazismo.

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L’eccezionalità ebraica non è razzista come quella tedesca, ma è anch’essa piena di metafisica, in particolare la metafisica della persecuzione. Anche gli ebrei completamente laici potrebbero essere d’accordo sul fatto che c’è qualcosa di metafisicamente unico nella storia ebraica: l’antisemitismo, un odio senza pari tra le nazioni, che persiste da millenni e culmina nell’Olocausto, un’atrocità così grande che sfida la comprensione in termini non metafisici. In questa visione, l’essenza dell’esistenza ebraica è la persecuzione; l’ebreo è la vittima eterna.

Il sionismo era, in effetti, una rivolta contro la metafisica: un tentativo di trasformare la vita ebraica dalla persecuzione alla sovranità, e dalla sovranità alla normalità; di essere una nazione come tutte le altre nazioni. Ma come sostiene Moshe Berent in “A Nation Like All Nations: Towards the Establishment of an Israeli Republic” (Una nazione come tutte le altre: verso la creazione di una repubblica israeliana), subito dopo la fondazione dello Stato è emerso un “nuovo mito sionista”, già pieno di vecchi tropi metafisici. Tuttavia, il rinnovato attaccamento allo Stato e alla forza militare ha creato una profonda dissonanza tra vittimismo e potere.

La ragion d’essere di Israele è quella di fungere da rifugio, ma nell’immaginario politico israeliano quel rifugio è diventato una caserma, un vasto campo militare che si fida solo di se stesso e considera la sicurezza come un gioco a somma zero con i paesi circostanti.

Se Israele fosse un’isola, la mentalità dello “Stato caserma” sarebbe potuta svanire nel giro di una o due generazioni. Ma la realtà geopolitica di Israele, assediata da un conflitto nato dalla sua stessa indipendenza e dalle guerre che l’hanno portata alla luce, non ha fatto altro che alimentare questa visione. La crescente interazione tra metafisica e teologia con l’ascesa della destra religiosa ha intensificato la percezione del conflitto come una battaglia totale tra il bene e il male. Pertanto, se l’esistenza israeliana è intesa come metafisicamente unica, intrecciata con la storia come vittima, allora i palestinesi diventano la nemesi, un nemico assoluto posizionato ai margini di quella storia.

Da popolo con interessi politici realistici, anche se problematici, i palestinesi sono stati trasformati nei cattivi della storia. Hanno perso la loro autonomia e non sono più visti come esseri umani con aspirazioni di autogoverno, prosperità o qualsiasi altra legittima esigenza delle nazioni. Sono animati da un unico obiettivo: distruggere Israele.

Questa visione distorta non è limitata alla destra religiosa. Come ha osservato Noam Sheizaf in un recente articolo su Haaretz (in ebraico), si è diffusa anche nel centro politico israeliano, come dimostra l’edizione rivista, post 7 ottobre, di “The War of Return” di Einat Wilf e Adi Schwartz. Dal loro punto di vista, i palestinesi non sono un popolo, ma un sistema progettato per annientare Israele.

L’inquadramento metafisico dei palestinesi come nemici storici rende il conflitto apolitico – e quindi irrisolvibile – poiché le soluzioni sono il risultato dello sforzo umano, il prodotto di vincoli. Questo conflitto non può essere risolto, proprio come non si può trasformare il ferro in oro; è semplicemente la natura del mondo.

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Questo atteggiamento è stato particolarmente evidente nella guerra “Swords of Iron”. Hezbollah, un’entità violenta, fanatica e aggressiva, si trovava al confine settentrionale di Israele, determinata ad annientarlo. Eppure, nel caso di Hezbollah, Israele non ha insistito sulla “vittoria totale”. C’era spazio per la diplomazia, per manovrare attraverso gli strumenti tradizionali della politica e dell’arena internazionale.

A destra, l’idea della guerra eterna è permeata da un messianismo zelante accompagnato dalla richiesta di una “vittoria totale”, una condizione in cui i palestinesi, come forza storica, vengono sconfitti e rinunciano a tutte le aspirazioni nazionali.

Con i palestinesi, una tale possibilità non è stata nemmeno presa in considerazione. L’idea stessa di porre fine ai combattimenti – soprattutto attraverso un quadro che potrebbe includere una soluzione più ampia al conflitto – è vista come vergognosa, innaturale.

Il massacro del 7 ottobre è stato un evento sconvolgente. Il fatto che sia stato trasmesso in tempo reale a milioni di israeliani lo ha reso particolarmente traumatico. Da allora, la convinzione di una guerra eterna ha messo radici in tutta la società israeliana. Il centro laico ora parla di “gestire il conflitto” a tempo indeterminato. Il deputato Benny Gantz, capo del Partito dell’Unità Nazionale, ha recentemente appoggiato l’affermazione del capo dello Shin Bet , recentemente nominato, secondo cui si tratta effettivamente di “una guerra eterna”.

Secondo questa visione, il rischio di un altro 7 ottobre non è casuale ma intrinseco, una caratteristica insita nella realtà. La soluzione del conflitto, ammesso che esista, va oltre la storia umana. Dipende da una trasformazione fondamentale all’interno degli stessi palestinesi, un cambiamento nella loro essenza metafisica. Noi, dalla parte israeliana, non abbiamo la capacità di realizzare questa trasformazione, né la responsabilità di promuovere una realtà diversa.

A destra, l’idea della guerra eterna è permeata da un messianismo zelante e quindi accompagnata dalla richiesta di una “vittoria totale”, una condizione finale in cui i palestinesi, come forza storica, vengono sconfitti e rinunciano a tutte le aspirazioni nazionali. Questo messianismo si basa sulla convinzione che la soluzione divina esista già. Questa è l’essenza del  “piano decisivo” di Bezalel Smotrich e del sionismo religioso hardali (nazionalista ultraortodosso): l’eradicazione della questione palestinese.

E dopo? L’avvento della redenzione stessa: la costruzione del Terzo Tempio e l’instaurazione di un nuovo ordine post-storico. Il fascino duraturo della destra sta nel fatto che promette una rivoluzione metafisica, come quella del sionismo ai suoi esordi. Qui, però, è accompagnata dalla promessa di un piano divino e di una provvidenza privata.

Che si creda in questo o in un altro percorso, il più grande fallimento del sionismo sta nella sua incapacità di creare uno Stato libero dall’essenzialismo metafisico. Nell’Israele del 2025, anche le persone più laiche devono ancora affrontare la fastidiosa domanda: “Cosa c’è di ebraico in te?”. La risposta normale dovrebbe essere: “Chi se ne frega? Che domanda strana”.

Se l’obiettivo del sionismo era quello di rendere possibile una vita normale, era quello di permettere agli ebrei di vivere senza mettere costantemente in discussione la loro ebraicità, di essere ebrei o ebrei semplicemente come un inglese è inglese, come una sedia è una sedia. Ma invece di dissolvere la tensione che sta alla base di questa domanda, la vita in Israele l’ha solo intensificata.

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Per molti anni ci è stato detto che gli israeliani desiderano ardentemente la normalità: come spiegare altrimenti la cultura consumistica ipermaterialistica che si è sviluppata qui, o l’impulso compulsivo di volare all’estero per assaporare brevemente la vita normale? Si tratta di un’illusione. Molti israeliani non ricordano più come sia una mattina senza controllare Telegram per vedere se è stato “autorizzato alla pubblicazione” qualcosa di nuovo: la notizia di un altro soldato caduto o di un altro disastro nazionale.

Dal 7 ottobre, l’isolamento diplomatico di Israele è stato accompagnato da un isolamento cognitivo. Tra l’opinione pubblica si è diffusa la sensazione che la nostra esistenza “anormale” non sia un difetto, ma la rivelazione di una verità più profonda, una caratteristica fondamentale della realtà che solo noi comprendiamo. Da qui derivano il biasimo, la presunzione e la condiscendenza nei confronti dei paesi occidentali riguardo al riconoscimento di uno Stato palestinese: gli israeliani credono che quei paesi stiano cercando di risolvere, con mezzi politici, un fenomeno che va oltre la politica. “Che si occupino prima dei loro musulmani”, ribattono gli israeliani nei dibattiti televisivi.

La cura sta nel normalizzare il nazionalismo israeliano, cacciando la metafisica dall’identità collettiva. Questo non vuol dire rinunciare all’identità nazionale come elemento fondamentale, ma riconoscere che l’identità non è un’essenza metafisica, non deriva da se stessa o dalla storia, e che la storia non è il nostro padrone.

L’identità israeliana non dovrebbe essere costruita solo sulla vittimizzazione o su un atteggiamento orgoglioso. Dovrebbe essere basata su una narrazione positiva di azioni e risultati. A tal fine, alcune cose devono essere lasciate alle spalle. Come ha scritto Renan, la nazionalità dipende non solo dalla memoria condivisa, ma anche dall’oblio condiviso, una decisione collettiva di dimenticare. Proprio come i francesi hanno scelto di dimenticare il massacro degli ugonotti e i tedeschi le atrocità della Guerra dei trent’anni.

In un articolo profetico scritto durante la prima intifada nel 1988, il prof. Yehuda Elkana si è espresso a favore dell’oblio:

“Ultimamente mi sono sempre più convinto che il fattore politico e sociale più profondo che motiva gran parte della società israeliana nei suoi rapporti con i palestinesi non sia la frustrazione personale, ma piuttosto una profonda ‘Angst’ esistenziale alimentata da una particolare interpretazione delle lezioni dell’Olocausto e dalla disponibilità a credere che il mondo intero sia contro di noi e che noi siamo le vittime eterne. In questa antica convinzione, condivisa da così tante persone oggi, vedo la tragica e paradossale vittoria di Hitler. Due nazioni, metaforicamente parlando, sono emerse dalle ceneri di Auschwitz: una minoranza che afferma ‘questo non deve mai più accadere’ e una maggioranza spaventata e ossessionata che afferma ‘questo non deve mai più accadere a noi’”.

La cura, quindi, è un progetto di normalizzazione su larga scala. Esternamente, la sua importanza è la normalizzazione dei palestinesi: trattarli come un collettivo politico legittimo, anche se problematico, e capire che il conflitto è una lotta tra due popoli che richiede una soluzione politica. La soluzione può essere complicata, naturalmente; quando mai un conflitto nazionale è stato semplice?

Ma per raggiungerla, dobbiamo tornare a parlare di una soluzione, non di “gestire il conflitto” all’infinito, come se un giorno una voce celeste dichiarerà la pace, o i palestinesi trasformeranno semplicemente i loro kalashnikov in aratri”, conclude Spiegel.

Uno scritto da incorniciare.

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