La “forca” come arma elettorale. Per fomentare la disumanizzazione, per spaccare la cosiddetta opposizione. Quanto a cinismo e mancanza di ogni scrupolo morale, Benjamin Netanyahu è imbattibile. E lo è tanto più quando chi dovrebbe opporsi alla scellerata politica del governo fascista di cui è a capo, gioca di rimessa o, peggio ancora, insegue la destra in assoluta subalternità. La riprova è nel dibattito che si è aperto dopo il primo dei tre voti alla Knesset sulla pena di morte mediante impiccagione per i palestinesi che hanno ucciso cittadini israeliani (escludendo il contrario).
Netanyahu sa che la pena di morte per i terroristi potrebbe essere un problema per l’opposizione israeliana.
Di grande interesse è l’analisi di Aluf Benn, caporedattore di Haaretz.
Scrive Benn: “Itamar Ben-Gvir non è il primo politico a costruire la sua campagna elettorale sulle vite di chi è stato condannato a morte. Bill Clinton l’ha fatto prima di lui. Oggi considerato un’icona liberale, ma quando era governatore dell’Arkansas e candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel 1992, ha supervisionato l’esecuzione di un uomo con problemi mentali che era stato condannato per aver ucciso un poliziotto.
Il prigioniero è stato giustiziato con un’iniezione letale, la stessa pena che i legislatori israeliani hanno deciso per chi viene condannato per aver ucciso “con l’intento di danneggiare la rinascita del popolo ebraico nella sua terra”, secondo l’emendamento 159 al codice penale (pena di morte per i terroristi), che sta per essere approvato definitivamente alla Knesset.
Clinton voleva apparire “duro con il crimine” e Ben-Gvir cerca di presentarsi come il boia della Nukhba (la forza d’élite di Hamas). Il suo amico, il commissario del servizio penitenziario Kobi Yaakobi, potrebbe fornirgli centinaia di palestinesi avvelenati prima delle elezioni come incentivo al voto per il partito Otzma Yehudit di Ben-Gvir.
Il dibattito sulla pena di morte si concentra sull’ingiustizia morale delle esecuzioni e sulla discriminazione intrinseca nel disegno di legge tra terroristi palestinesi ed ebrei. Ma l’accelerazione della legislazione ha anche un significato politico: divide il blocco dell’opposizione. Nel voto per approvare la legge in prima lettura, Avigdor Lieberman l’ha sostenuta, i Democratici e i partiti arabi si sono opposti, mentre Yair Lapid, Gadi Eisenkot e Benny Gantz erano assenti dalla plenaria.
Solo in Israele il capo dell’opposizione, un ex primo ministro, non ha una posizione su una questione cruciale come le esecuzioni di massa. Ed è proprio così che Benjamin Netanyahu li vuole: divisi e spaventati. Gli piace mettere Yair Golan nello stesso angolo di Ayman Odeh, Ahmad Tibi e Mansour Abbas, come partner illegittimo in una “coalizione sionista”, neutralizzando così la possibilità di un futuro governo senza il Likud.
Proprio come le iniezioni letali per i terroristi, anche la “commissione d’inchiesta” che Netanyahu sta istituendo per il fallimento del 7 ottobre sarà un trucco per dividere e governare contro i suoi rivali politici.
Come ha detto il ministro Zeev Elkin, membro del comitato che sta redigendo i termini di riferimento della commissione, la commissione governativa dovrebbe stabilire che gli accordi di Oslo (1993) e il disimpegno da Gaza (2005) hanno portato all’attacco di Hamas nel 2023. In altre parole, le sue conclusioni metteranno il sigillo dello Stato sul vecchio slogan della destra: “Processate i criminali di Oslo”. Ma questo offrirà a Netanyahu solo una piccola consolazione. È tornato al potere dopo Oslo e il disimpegno, non li ha annullati e ha avuto tutto il tempo per preparare le difese del Paese.
Dare la colpa a Yitzhak Rabin e Ariel Sharon non assolverà Netanyahu dalla responsabilità di aver abbandonato le comunità vicino a Gaza.
Ma anche se la commissione faticherà a scagionare completamente Netanyahu, gli garantirà punti molto preziosi nel gioco politico. È difficile immaginare chi comparirà davanti alla commissione di insabbiamento del governo per giustificare retroattivamente Oslo e il disimpegno.
Le mosse storiche per dividere la terra tra Israele e i palestinesi hanno pochi sostenitori oggi, anche tra gli oppositori di Netanyahu. Naftali Bennett, il leader emergente del campo liberale, ha deciso di non partecipare alla manifestazione commemorativa per Rabin, per non essere associato all’accordo del primo ministro assassinato con Yasser Arafat. Bennett vuole raccogliere voti in Kaplan Street, ma non in Rabin Square.
Dall’inizio della guerra, Netanyahu ha portato avanti una politica estera e di sicurezza aggressiva che gode di ampia popolarità al di là del campo pro-Netanyahu. È così che è riuscito a rimanere al potere nonostante il terribile fallimento, i sondaggi negativi e le sue vuote promesse di vittoria totale. Ed è questo il motivo del suo sostegno alla pseudo-commissione d’inchiesta e alla pena di morte per i terroristi.
Le iniezioni letali per Hamas potrebbero essere protagoniste del canale TikTok di Ben-Gvir e dei suoi cartelloni pubblicitari, ma aiuteranno anche Netanyahu ad ampliare la sua coalizione dopo le elezioni e a ridurre la sua dipendenza dai partner kahanisti”, conclude Benn.
Oltre al razzismo e all’apartheid, la pena di morte è un vero pericolo per gli israeliani.
A denunciarlo, sempre sul quotidiano progressista di Tel Aviv, è Noa Limone.
Annota Limone: “Il disegno di legge che vuole la pena di morte per i terroristi (arabi) non è pensato per spaventare. Il suo vero obiettivo, oltre a soddisfare la voglia di vendetta che è cresciuta tra gli israeliani dal 7 ottobre 2023, è di uccidere la speranza di pace, di eliminare la possibilità di una riconciliazione e di sabotare ancora di più la possibilità che il conflitto con i palestinesi finisca.
È difficile credere che chi ha presentato, promosso e sostenuto il disegno di legge pensi davvero che servirà a scoraggiare e ridurre il terrorismo. Un terrorista palestinese che decide di fare un attentato sa benissimo che c’è un’alta probabilità che venga ucciso mentre cerca di uccidere.
La pena di morte non scoraggerà nemmeno chi non si lascia intimidire dalle dure condizioni delle prigioni israeliane. Un rapporto pubblicato una settimana fa da Physicians for Human Rights, basato sui dati ufficiali diffusi dalle forze di difesa israeliane e dal servizio di sicurezza Shin Bet, afferma che almeno 98 palestinesi sono morti nelle strutture di detenzione israeliane negli ultimi due anni. Si tratta di un numero senza precedenti, che molti ritengono sottostimato a causa di quella che il rapporto definisce una “politica di sparizioni forzate”.
Inoltre, sulla base delle testimonianze e dei referti autoptici, molti dei detenuti sono morti a causa di torture, negligenza medica e fame. In realtà è meglio morire con l’iniezione letale.
Le prigioni, già affollate, sono sovraffollate da quando è iniziata la guerra due anni fa. E contrariamente a quanto dicono i populisti, i prigionieri non vivono in condizioni da campo estivo. Alla maggior parte di loro, anche a quelli che non hanno le mani sporche di sangue, vengono negati alcuni dei diritti garantiti dalla legge, compreso l’accesso all’istruzione, che potrebbe servire come fattore moderatore. Questi prigionieri palestinesi possono solo invidiare le condizioni di cui gode, ad esempio, Yigal Amir, che ha assassinato il primo ministro Yitzhak Rabin.
Proprio come con la politica degli omicidi mirati, che non ha mai scoraggiato nessuno, anche in questo caso la deterrenza è solo una scusa. Ma questo disegno di legge raggiungerà il suo vero obiettivo nascosto, che è esattamente l’opposto. Immaginate come reagiranno i palestinesi della Cisgiordania quando assisteranno all’esecuzione di persone che, ai loro occhi, sono combattenti per la libertà che non avrebbero commesso alcun crimine se non avessero vissuto sotto l’occupazione. Nella società palestinese, lo status di questi prigionieri è un consenso sacro che va oltre le divisioni politiche.
Nel 2019, Josh Breiner di Haaretz ha scritto che i prigionieri palestinesi che ha incontrato nelle carceri hanno risposto con derisione quando ha chiesto loro della possibilità della pena di morte, che all’epoca era puramente ipotetica. “Quando sono uscito di casa per questa missione, sapevo che sarei morto”, ha risposto uno di loro. “Al contrario, questo ci sarà utile, perché infiammerà la strada palestinese”.
Ed è proprio quello che vogliono i sostenitori del disegno di legge: intensificare ancora di più il ciclo di violenza che ha intrappolato entrambi i popoli e continuare questa brutta storia in cui entrambi accelerano il ritmo dello spargimento di sangue.
E come bonus, distruggerebbe la legittimità dell’Autorità Palestinese. La posizione dell’AP, già traballante grazie al primo ministro Benjamin Netanyahu, crollerebbe ancora di più una volta che l’opinione pubblica palestinese vedesse che anche le riforme attuate nel tentativo di soddisfare l’America e Israele – tra cui la sospensione delle indennità versate alle famiglie dei prigionieri palestinesi – non solo non vengono ricompensate, ma sono accompagnate da una politica di condanne più severe.
L’idea della pena di morte per i terroristi, al di là dei suoi difetti morali e del razzismo e dell’apartheid insiti nella formulazione di questo particolare disegno di legge, rappresenta un pericolo reale per gli israeliani. Fa appello alla parte primitiva e infantile dell’opinione pubblica. Soddisfa l’impulso della “legge del taglione” distruggendo ogni possibilità di pensiero utile e razionale, come imparare qualcosa dai conflitti in altre parti del mondo, dove la liberazione e la riabilitazione dei ‘terroristi’, compresi quelli con “le mani sporche di sangue”, hanno avuto un ruolo chiave nel promuovere i processi di pace.
È quello che è successo, per esempio, in Cambogia, El Salvador, Mozambico, Bosnia, Sierra Leone e Irlanda del Nord. Se solo la gente qui fosse davvero interessata a trovare una soluzione. Se solo ridurre la violenza e fare la pace fossero gli obiettivi”, annota in finale Limone.
Se solo ridurre la violenza e fare la pace fossero gli obiettivi. Ma quel “se” andrebbe scritto a caratteri cubitali. Perché in esso è contenuto tutto il dilemma su cosa voglia diventare Israele. Cosa sia oggi è chiaro, tristemente, tragicamente chiaro. Nonostante l’eroica resistenza di giornali e giornalisti dalla schiena dritta, nonostante la tenace resilienza di una minoranza illuminata, Israele è oggi un’autocrazia aggressiva, governata da una destra messianica, bellicista, suprematista, convinta di dover assolvere ad una missione divina: quella del Grande Israele. Una destra golpista, per la quale dialogo è parola impronunciabile, sacrilega, e chi la pensa diversamente è un ostacolo da rimuovere con ogni mezzo. Questa destra ha nel suo DNA il disprezzo per l’altro da sé e una praticata allergia verso tutto ciò che connota uno Stato di diritto.
Chiudere gli occhi di fronte a questa realtà, quotidianamente raccontata da Haaretz, è un atto di pavidità intellettuale e di stupidità politica. In Italia sono in tanti a manifestare questi “sintomi”.
Il tutto mentre la stampa mainstream ha oscurato la tragedia di Gaza. È in gioco la stessa sopravvivenza di Gaza”, hanno avvertito le Nazioni Unite in un rapporto nel quale si invita la comunità internazionale a elaborare “senza indugio” e in modo coordinato un “piano di ripresa globale”. I raid dell’Idf “hanno eroso tutti i pilastri della sopravvivenza”, dal cibo agli alloggi all’assistenza sanitaria, “minando la governance e facendo sprofondare” l’enclave “in un abisso”, si dice ancora nel dossier della Conferenza Onu sul commercio e lo sviluppo (Unctad). Gaza è ora, a causa degli attacchi militari israeliani, “in uno stato di rovina totale”, prosegue l’Unctad, che stima in circa 70 miliardi di dollari la somma per ricostruire il territorio palestinese. Intanto, anche la contestata e discussa Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), sostenuta da Israele e Usa per portare aiuti dopo il blocco imposto da Tel Aviv, ha annunciato la fine delle proprie attività. Note sono le accuse secondo le quali i suoi responsabili per la sicurezza abbiano a più riprese aperto il fuoco sui civili in coda per il cibo.
E hanno la sfrontatezza di chiamarla “pace”.