Donald Trump torna a evocare apertamente un progetto di espansione territoriale degli Stati Uniti, rivendicando la Groenlandia come se fosse una pedina da annettere in nome di una presunta “sicurezza nazionale”. In una conferenza stampa da Mar-a-Lago, il presidente ha dichiarato che Washington “deve avere” la Groenlandia, non per le sue risorse – petrolio e minerali – ma per ragioni strategiche, denunciando una presenza russa e cinese lungo le coste dell’isola. Un linguaggio che richiama esplicitamente una logica di neoimperialismo securitario, in cui la sovranità altrui viene ridotta a variabile secondaria.
Trump ha liquidato con disprezzo il ruolo della Danimarca, definita incapace di garantire protezione militare a un territorio che è invece un’area autonoma del Regno danese. Secondo il presidente Usa, Copenaghen non avrebbe investito abbastanza e la sua presenza storica sarebbe poco più che simbolica. Un’argomentazione che ignora deliberatamente il diritto internazionale e il principio di autodeterminazione dei popoli, sostituiti da una narrazione muscolare del “chi protegge, possiede”.
Ancora più rivelatore è il riferimento al nuovo inviato speciale per la Groenlandia, Jeff Landry, presentato come una figura “proattiva” e gradita a Trump per iniziativa personale. Il richiamo all’acquisto della Louisiana rafforza l’idea di una politica estera fondata su rapporti personali, fedeltà politiche e affinità d’affari: un neoimperialismo che intreccia potere, interessi economici e ambizioni geopolitiche.
Mentre Trump parla di “pace” e nega l’uso della forza, il contesto racconta altro: un nuovo governo groenlandese apertamente critico verso Washington, una crescente tensione nell’Artico e una visione del mondo in cui le grandi potenze si arrogano il diritto di ridefinire confini e sovranità. La Groenlandia, in questa prospettiva, non è una comunità con una propria identità e volontà politica, ma un territorio da “sistemare”. Una logica coloniale aggiornata al XXI secolo.
