Mia madre è nata in una piccola città dell’entroterra laziale, in un mondo (parliamo del 1928) nel quale i mezzi di comunicazione di oggi non si potevano nemmeno immaginare, un mondo per forza di cose discretamente provinciale. Eppure conosce a memoria (parole comprese) molte famose musiche d’opera italiana (cori verdiani soprattutto, ma non solo), per averle apprese in tenera età; ed io suppongo oralmente: in certi punti le canta un po’ diverse dagli originali, consumate e un poco “addomesticate”, come fossero passate da un “telegrafo senza fili”. Mia madre non era figlia della borghesia colta, la radio allora non era diffusa, e le bande musicali non erano all’ordine del giorno, anzi: quando capitava che ne arrivasse una, si racconta, lei e le altre piccole teppiste sue amiche si appostavano vicino ai suonatori, e suggendo rumorosamente un mezzo limone, provocavano allo strumentista a fiato un eccesso di salivazione che gli avrebbe impedito di suonare… (Che tenerezza fanno questi scherzi, al giorno d’oggi…).
Mi scuso di averla fatta un po’ lunga, ma volevo solo dire che la conoscenza della musica d’opera, magari non di prima mano, magari parziale, era una volta estremamente diffusa in ogni angolo dello Stivale, presso tutti gli strati sociali.
Ma perché? Per tanti motivi: innanzitutto è musica di fattura tendenzialmente semplice (e ciò ne facilita assorbimento e diffusione); e questa semplicità, che nulla ha a che vedere col banale, nasce da (ed è funzionale a) un’espressione meravigliosamente sorgiva dei sentimenti più elementari certo, ma senz’altro più veri e profondi. Non possiamo poi dimenticare che l’opera è stata un elemento di unificazione per niente trascurabile nel processo politico risorgimentale, per il quale fungerà quasi da colonna sonora: musica che ha la vitalità incontenibile dell’adolescenza, così come adolescente era la coscienza unitaria della Nazione (tutti conoscono il senso della scritta “viva V.E.R.D.I.”). Deriva da queste caratteristiche l’amore incondizionato che questo vastissimo repertorio suscita presso tutti i palcoscenici del mondo, con gli autori da Alfano (Franco) a Zandonai, passando per Bellini, Donizetti, Puccini, Rossini e Verdi (si dice che non passi giorno nel quale La Traviata non sia in scena in almeno un teatro del mondo).
Insomma, stiamo parlando di qualcosa che brilla come uno dei tesori più preziosi tra quelli della cultura italiana di tutti i tempi, insieme a Dante, Michelangelo e San Francesco, qualcosa che ha a che fare col profondo della nostra storia e che ci qualifica agli occhi nostri e del mondo. L’aneddoto è forse di fantasia, ma emblematico: si narra che Enrico Caruso, di ritorno negli USA ma sprovvisto di documenti, abbia potuto provare la propria identità intonando un’aria con la sua inconfondibile voce (Caruso è stato il primo cantante della storia a incidere dischi, e anche a questo si deve una fama che dura ancor oggi: lo ricorda Lucio Dalla in una famosa canzone, blasonata addirittura dall’interpretazione di Luciano Pavarotti, tanto per chiudere il cerchio).
Detto ciò, credo che ci si possa permettere di definire i tagli dei fondi per l’opera di questi ultimi anni come sotterraneamente eversivi, e cerco di spiegare.
Lasciamo stare per un attimo alcuni problemi che affliggono il settore (tra cui gli sprechi, le ruberie, i favoritismi, la sete di potere e compagnia cantante – è il caso di dirlo), problemi che hanno almeno parzialmente offuscato quando non screditato il mondo dell’opera (ma d’altronde, quale “chiesa” è priva di peccatori?), e riflettiamo sulla frase di Mahler: “tradizione non è culto delle ceneri, ma conservazione del fuoco”. Ebbene, chi attenta al FUS attenta a questa tradizione, in quanto i teatri d’opera sono, vuoi o non vuoi, gli unici luoghi dove “conservare il fuoco” (e non mi si venga a dire che l’opera è buona per essere fruita in DVD o in diretta su qualche maxischermo – esperienze certamente utili magari alla divulgazione, per carità, ma che regalano solo pallidi riflessi dell’esperienza possibile in presenza della viva vibrazione della voce e dell’orchestra – con buona pace dei cultori dell’HiFi e del Dolby Surround).
I documentati tentativi della Loggia P2 di instaurare una specie di dittatura legalizzata, prevedevano il raggiungimento di obbiettivi alcuni dei quali sono tra gli impegni dell’attuale governo:
– la conquista degli organi di stampa: è ormai storica la vicenda dell’acquisizione del potere reale sul più importante quotidiano nazionale da parte di Gelli e Calvi, e quella (con sviluppi più attuali) del cosiddetto “Lodo Mondadori” è sotto gli occhi di tutti. D’altronde la decadenza in questo settore della vita pubblica italiana è testimoniata anche dai fatti recenti occorsi all’ultimo direttore della storica testata socialista Avanti! Valter Lavitola, in faccende ancora da chiarire con Berlusconi, radiato dall’albo dei giornalisti e per la giustizia italiana tuttora latitante.
– la distruzione della RAI quanto a monopolio e credibilità, a favore di altre reti nazionali private: l’attualità della vicenda Minzolini conferma questa tendenza (per non parlare di Santoro e Dandini), di cui non mancano esempi a partire dalla legge Mammì, promulgata nel 1990 durante un governo Andreotti.
– l’asservimento del potere giudiziario all’esecutivo: un obbiettivo costante dei governi Berlusconi, durante il secondo dei quali venne presentata alle camere una Riforma Castelli, che non riesce però a passare come progettata inizialmente, a causa di evidenti incostituzionalità.
– la restrizione dell’accesso all’istruzione ai soli soggetti abbienti: la progressiva riduzione delle sovvenzioni statali alla scuola pubblica di ogni ordine e grado hanno avuto negli anni la conseguenza macroscopica di far lievitare le tasse scolastiche in maniera esponenziale. Per non parlare dei problemi dell’Università né dell’abitudine di alcuni esponenti dell’attuale governo (come Renato Brunetta) di irridere quando non insultare il corpo docente italiano, insieme agli altri dipendenti pubblici.
In definitiva stiamo parlando del tentativo di conquistare la più ampia libertà di manovra tanto negli aspetti in ombra della vita pubblica quanto in quelli più evidenti e palesi, tra i quali in primis le attività dello spettacolo e culturali in genere.
Inoltre: Gelli stesso in un’intervista televisiva del 2008 indica in Berlusconi la persona che può attuare il Piano di rinascita democratica; e addirittura l’alleato Umberto Bossi nel libro Tutta la verità (1995) affermava che “Berlusconi è la materializzazione di un sogno antico, accarezzato da quel tale Licio Gelli…”.
Altri poi asseriscono che l’impoverimento della vita culturale del Paese, stanti i tagli ai fondi per gli enti locali contenuti nella recente manovra, farà crollare l’appeal internazionale che tradizionalmente contraddistingue(va) l’Italia da questo punto di vista (insomma per aver risparmiato 100 si dovrà rinunciare a 1000 di ritorno, un po’ come è successo alla RAI per aver perso Santoro).
Ma allora, perché? Sandro Bondi sa bene che La cultura è libertà (è il titolo di un suo libro), e viene il sospetto che sia proprio per questo che stanno cercando di distruggerla pezzo per pezzo, insieme alla nostra memoria storica. E viene il sospetto che la crisi possa venir usata come scusa a giustificare la scure sui finanziamenti, mentre non si osa mettere mano a una seria politica di lotta all’evasione fiscale, né peraltro si vedono ancora misure a tutela dello sviluppo.
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