Roma: memoria e riflessione sul convegno del '74
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Roma: memoria e riflessione sul convegno del '74

La Chiesa di Roma rievoca il Convegno del '74, promuovendo riflessioni sulla città e la sua missione caritativa.

Roma: memoria e riflessione sul convegno del '74
La sala della Conciliazione a San Giovanni a Roma
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20 Febbraio 2024 - 02.10


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di Antonio Salvati

Preziosa occasione di riflessione, quella promossa dalla Diocesi di Roma e che ha avuto luogo ieri – davanti un pubblico foltissimo – nella Sala della Conciliazione in Vicariato per far memoria del Convegno La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e giustizia nella città di Roma che si svolse dal 12 al 15 febbraio 1974, meglio conosciuto come il «convegno sui mali di Roma». Di mali allora a Roma ce n’erano tanti, descritti ampiamente qualche anno prima dal sociologo Ferrarotti, in un suo famoso libro, Roma da capitale a periferia. Le periferie erano piene d’immigrati del Sud, senza lavoro e con tante baracche. Erano la parte dolente della cosiddetta “città sacra”, una metropoli che perdeva anima e coesione.

Verso la fine del 1973 il Vicario di Roma dell’epoca, il Cardinal Ugo Poletti, si chiese: «Ha la Chiesa qualcosa da dire alla società di oggi?». Rispose: «Ha da dire che il mondo attuale è inaccettabile, e che l’uomo ha la vocazione di trasformarlo…». Quella domanda pose le basi del Convegno. Non solo. Quelle parole spiazzarono il composito e nutrito quello che veniva definito il dissenso ecclesiale, che contestava l’istituzione ecclesiastica, i suoi legami con la Dc, il conservatorismo. Poletti – ha ricordato Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio – conosceva tutto questo. Non era un rivoluzionario: «un piccolo prete», così si definiva. Ma Paolo VI lo volle nel 1972 alla testa di Roma per cambiare la Chiesa, come ha narrato Marco Impagliazzo ne La diocesi del papa. Nelle sue Memorie Poletti raccontò il doloroso impatto con la periferia: «L’animo mio era colmo di amarezza per quanto avevo visto e ascoltato e per le condizioni veramente miserevoli della gente. Tornato a casa, a notte fonda, descrissi, in una lunga lettera a papa Paolo VI, la situazione. Egli ne fu impressionato…».

Mai il vicariato ha voluto ricordare quell’evento, ha spiegato Riccardi. Era la memoria di qualcosa di eccessivo, generatore di fratture. Pesanti reazioni seguirono all’evento, soprattutto dalla DC e da Andreotti. Anche dalla diocesi (molti parroci non intervennero). Il convegno fu considerato un evento autolesionista da diversi ambienti ecclesiastici. Poletti fu accusato di aver dato ospitalità in una sede ufficiale alla contestazione ecclesiale. Paolo VI non ricevette i convegnisti. Un convegno considerato, inoltre, eccessivo con più di settecento interventi su oltre cinquemila partecipanti. Non era concepibile mettere in discussione l’operato della Chiesa di Roma. Eppure straordinariamente la città e l’opinione pubblica si accorsero come mai della Chiesa. Poletti superò la forbice tra contestazione e riduzione ecclesiastica della Chiesa: scelse una Chiesa di popolo (chiunque partecipò al convegno), raccolta per la prima volta a San Giovanni, da allora luogo delle convocazioni diocesane. Furono preparati 320 documenti dalle diverse realtà romane e vennero fatti 740 interventi nelle cinque assemblee. Una riflessione e una partecipazione uniche nella Roma novecentesca. «Perché ricordare cinquant’anni dopo?», si è chiesto Riccardi. La perdita della dimensione della storia, per una città e una Chiesa, significa smarrire la dimensione del futuro e la speranza, con il serio rischio di un avvitamento autoreferenziale. Per Riccardi ricordare è decisivo in una Chiesa come Roma che, nel ’74, «ha l’evento genetico della sua esistenza contemporanea come diocesi. Non coltivare la memoria significa non coltivare la visione del futuro». Troppo spesso la visione del futuro della Chiesa – come ha detto il card. Matteo Zuppi – è impostata sulla cultura del declino, che sembra sola a far fronte alla riduzione drastica: meno preti, fedeli, rilievo e quant’altro. Così – ammonisce Riccardi – si smorza la passione. Serve una nuova iniziativa e passione. Gli interlocutori sono una moltitudine di romani, che hanno attese. L’iniziativa matura «in una visione della città. È il punto decisivo e carente, la cultura assieme alla passione. Senza negare lo zelo di tanti!».

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Poletti considerato il “sovversivo”, da parte di una certa stampa e dell’opinione pubblica, ha sempre difeso il Convegno del febbraio ‘74. Quei tre giorni di interventi, di “sentire di popolo”, diedero una configurazione ecclesiale decisiva. Come ha riconosciuto la storiografia, negli anni successivi, quell’evento fu considerato come costruttore della realtà di Roma, un evento profetico nel vero senso della parola. Significativamente Riccardi ha ricordato che qualcuno disse «Il Concilio è arrivato a Roma», dopo le giornate tra il 13 e il 15 febbraio 1974. Evocare l’evento del ’74 è un fatto nostalgico? La nostalgia è un’altra cosa, non la memoria, precisa Riccardi. La memoria è il richiamo di quel che la Chiesa è stata e che può essere «perché Roma senza i cristiani è un’altra cosa». Per questo c’è voglia di ricordare il «convegno sui mali di Roma».

Infine, Riccardi ha sostenuto che c’è qualcosa di bergogliano nel febbraio ‘74. Francesco è stato l’unico Papa a ricordare e a citare l’evento: «ci si pose in ascolto dei poveri e della periferia. La città deve essere casa di tutti». Papa Francesco ha sempre parlato di “periferia” come sfida. La Chiesa si gioca sempre sulle periferie, mentre subisce la pericolosa attrazione dell’autoreferenzialità, la riduzione all’istituzione e al mondo ecclesiastico. Nel messaggio per le celebrazioni dei 150 anni di Roma Capitale Papa Francesco scrisse: «Roma avrà un futuro, se condivideremo la visione di città fraterna, inclusiva, aperta al mondo». Parole dalle quali emerge la teologia della città secondo Bergoglio: essere popolo e costruire la città vanno di pari passo perché Dio vive nella città.

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Il grande studioso tedesco Mommsen, dopo il 1870, diceva che «non si sta a Roma senza un’idea universale». Ancor più oggi, nel mondo globale. All’epoca del febbraio `74, l’idea di città sacra era naufragata nella modernizzazione romana e nella miseria delle periferie. Il convegno ebbe il genio di leggere Roma con realismo come «città malata»: propose la speranza di una città diversa, soprattutto mostrò che non si doveva essere inerti ma si poteva fare molto per cambiare.

Su come costruire la città, o meglio sulla necessità della sua promozione umana si è soffermato Giuseppe De Rita, presidente del Censis, uno dei promotori del convegno del ‘74. Per il sociologo Roma appariva una «città culturalmente inerte, moralmente opaca, politicamente deresponsabilizzata; una città in cui è illusione pensare che pochi individui, gruppi o istituzioni di buona volontà possano supplire la scarsa vitalità di fondo della struttura sociale». «Fu un tentativo – rammenta – di capire in quale processo eravamo e l’ipotesi era la divaricazione». Ma c’era una forte ansia di partecipazione, il clima, la volontà. Oggi il processo storico a cui siamo di fronte a Roma è la fascia intermedia, «una zona grigia di chi non crede più. Se facessimo un nuovo convegno sarebbe un fallimento, perché non sapremmo mordere l’argomento. Abbiamo un popolo che se ne frega, sta solo con sé stesso. C’è un primato del soggettivismo difficile da smontare». La Chiesa sa parlare alla soggettività individuale? Viviamo in un populismo di paura, la paura di regredire, fortemente tentato dall’indifferenza che reagisce se gli toccano ciò che ha conquistato. Quella che De Rita definisce la tragedia della zona grigia italiana. Quella che il Censis, nell’ultimo Rapporto lo scorso dicembre, ha definito con il termine di «sonnambuli». Ovvero «ciechi dinanzi ai presagi». Leggiamo nel Rapporto: «Alcuni processi economici e sociali largamente prevedibili nei loro effetti sembrano rimossi dall’agenda collettiva del Paese, o comunque sottovalutati. Benché il loro impatto sarà dirompente per la tenuta del sistema, l’insipienza di fronte ai cupi presagi si traduce in una colpevole irresolutezza». Una società che cammina lenta, che si trascina, priva della virtù dell’intenzionalità. Pertanto, una società priva di intenzioni. Ci trasciniamo, ci adattiamo. Se offri un’opportunità di partecipazione la gente si spaventa perché deve assumersi una responsabilità. Il febbraio del ’74 fu mettere al centro la promozione umana. Che significava stare dentro ai processi perché la Chiesa nei processi diventa soggetto. E il grande merito di Poletti – sottolinea De Rita – è stato quello di creare la Chiesa di Roma. La grande sfida oggi della Chiesa di Roma «non è la difesa di quello che è stato, ma la valorizzazione di quello che è dentro al processo attuale».

Il «convegno sui mali di Roma» fu un’idea incredibilmente mobilitatrice e unificatrice, come le vere visioni. Fece riflettere tanti, laici e religiosi. Riunì i cattolici, allora divisi e polarizzati, nella visione di un’unica missione nella città. Collegò parrocchie e comunità, tentate da una vita insulare. Seppe parlare ai romani. Ritornare a quella memoria mostra le risorse di una Chiesa “povera”. Riprendere quella passione fa bene e dà speranza oggi. Per il card. Angelo De Donatis, vicario generale di Sua Santità per la diocesi di Roma, «ricordare il convegno e riproporne l’approccio è un’occasione per la comunità cristiana di riconsiderare e rinnovare la propria vocazione alla carità. Ma è anche un’offerta di collaborazione, è un richiamo alla corresponsabilità rivolto all’insieme della comunità urbana».

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