Adelchi torna sulle scene, a scuotere le nostre coscienze

Al Teatro Arcobaleno di Roma si rappresenta la tragedia manzoniana, nella riduzione di Vincenzo Zingaro e la partecipazione di Giuseppe Pambieri, che racconta lo spettacolo

Adelchi torna sulle scene, a scuotere le nostre coscienze
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

11 Maggio 2025 - 22.32


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La tragedia manzoniana Adelchi fu pubblicata due secoli fa (1822), nel pieno rigoglio del romanticismo storico. Ambientata nell’VIII secolo, com’è noto narra le vicende della caduta del regno longobardo in Italia ad opera dei Franchi di Carlo Magno, ed eleva ad eroi Adelchi (figlio di Desiderio, re dei Longobardi), e sua sorella Ermengarda. Opera di pura poesia, non è agevole da portare in scena, Manzoni non l’aveva intesa per la rappresentazione, ma per la lettura. Tuttavia, la parola raffinata e polisemica del testo, l’aulico tessuto poetico, altamente evocativo, stimolano un artista di razza all’allestimento scenico. È il caso di Vincenzo Zingaro, che delle suggestioni manzoniane ha fatto tesoro, curandone la riduzione teatrale (impresa non facile, considerato che l’opera consta di duemila versi), e allestendo, nel 2009, un suo Adelchi, già pluripremiato, che in questi giorni, in occasione del 240° anniversario della nascita di Manzoni, è riproposto al Teatro Arcobaleno di Roma, dal 9 al 18 maggio.

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Si tratta di uno “spettacolo-concerto per attori ed ensemble musicale”, che vede Zingaro nelle vesti dell’eroe eponimo, affiancato da Giuseppe Pambieri nei panni di re Desiderio, Annalena Lombardi in quelli di Ermengarda, Piero Serpa (a cui va anche il merito di aver assimilato la parte in breve tempo, avendo sostituito in extremis Giovanni Nardoni) in quelli di re Carlo, e un valido set di giovani attori: Giovanni Ribò (incisivo il suo diacono Martino), Fabrizio Passerini, Francesco Polizzi, Alessandro Marverti, Sina Sebastiani, Paolo Oppidano. L’ensemble è diretto da Giovanni Zappalorto, anche alle tastiere nonché autore delle musiche, accompagnato da Francesca Salandri al flauto, Stefania Mercuri al corno inglese, Angelica Riccardi al violino, Chiara Ciancone alla viola, Eleonora Yung al violoncello, mentre Maurizio Trippittelli, musicista aquilano che tra le numerose e prestigiose collaborazioni vanta quella con Ennio Morricone, con un imponente set di percussioni sinfoniche si staglia al centro della scena, in alto rispetto allo spazio degli attori (dai quali è anche talvolta affiancato), quasi a dare centralità simbolica al suono in questo originale allestimento. Una composizione che, per qualità e suggestione, ricorda una colonna sonora cinematografica, con la predominanza di archi e di accordi in minore che suggestivamente rendono la qualità tragica della vicenda.

Gli interpreti, come si dice, sono tutti in parte: Pambieri, da par suo, assume in sé la carica aggressiva di re Desiderio, uomo assetato di potere e vendetta, poi annichilito dalla perdita del figlio, cui conferisce sostanza fisica e personalità con gli inimitabili accenti della sua voce e della sua presenza scenica; Zingaro dà vita con intima partecipazione all’uomo nuovo ideato da Manzoni, quell’Adelchi che incarna i sentimenti di giustizia e solidarietà, pur scisso nell’amore e nel rispetto del padre, nel dissidio tra l’ideale e la dura realtà della politica e della guerra; Annalena Lombardi disegna con bella voce di soprano i tratti delicati di Ermengarda, prototipo della donna ripudiata, vittima della ragion di stato che schiaccia i sentimenti. Figura tragica al pari del fratello, il suo delirio e la sua morte, narrati nel celebre Coro dell’atto IV e in un tempo fecondo fatti studiare a memoria agli scolari (“Sparsa le trecce morbide sull’affannoso petto”), rappresentano la sofferenza innocente, il dolore del disamore e la ricerca di una pace che solo la fede può concedere.

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L’originalità della messa in scena è insita nella riuscita integrazione tra il testo manzoniano e le musiche di Zappalorto, non già semplice sottofondo, ma parte integrante della narrazione in grado di esaltare l’intensità drammatica e lirica dell’opera, che a sensibilità attente richiama l’idea greca di mousikè, dove suono, poesia e danza erano indissolubilmente legati. Fusione di parola e musica che coinvolge lo spettatore, rendendo il dramma accessibile anche a chi non abbia familiarità con un linguaggio poetico così elevato e solenne, per quanto, noi nostalgici di un certo teatro, immaginiamo l’impatto che avrebbe con un allestimento in costume, in spazi scenici più ampi (come avvenne nel 2009, ai Fori Imperiali), una recitazione non letta e non amplificata, poiché con il microfono le battute risultano un po’ sopra le righe. Cosa che presupporrebbe una produzione ben più onusta di mezzi, accessibile solo ai teatri stabili, i quali però paiono poco interessati a inserire nei loro programmi opere di tal fatta: teniamoci dunque stretto l’allestimento di Zingaro ed altri come questo, magari supportandoli con le nostre presenze, dando ossigeno ad un teatro boccheggiante.

Anche perché Zingaro ha saputo trarre la modernità del testo manzoniano: negli ideali di giustizia e pace incarnati da Adelchi, nella Storia quale luogo di violenza e sopraffazione, nel dissidio tra ideale e reale, nell’attenzione agli oppressi, quel “volgo disperso che nome non ha”, riposa la cogente attualità dell’opera. Oggi più che mai, il cosiddetto pessimismo storico del grande scrittore milanese che prorompe da questi versi si staglia come monito a saper decifrare il nostro mondo, il cui marchio sanguinoso è inciso nella guerra e nella distruzione di esseri e valori umani, nella scomparsa di quella pietas cristiana che circonfonde come un alone luminoso i protagonisti di questa dolente tragedia. A ciò, anche, serve il teatro, che solo una casta di pletorici ignoranti può lasciar morir di consunzione, con sommo disdoro di noi tutti.

Per l’occasione abbiamo intervistato Giuseppe Pambieri.

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Com’è nato il tuo coinvolgimento in questo progetto?

Vincenzo Zingaro mi ha chiesto di partecipare a questo allestimento, per interpretare re Desiderio, il padre di Adelchi. Negli anni Sessanta vidi il memorabile allestimento dell’Adelchi di Vittorio Gassman, al Teatro Tenda, uno spazio enorme, quando lui faceva teatro popolare. Mi portarono i miei, questo ancora prima di cominciare la scuola del Piccolo. Carlo D’Angelo faceva re Carlo, Valentina Fortunato era Ermengarda, il mio ruolo lo faceva Andrea Bosic, con cui poi ho lavorato in televisione, in una commedia di Agatha Christie, la Rai produsse una serie di commedie di Agatha Christie, L’ora zero, si chiamava. Quello di Gassman fu il primo spettacolo che vidi, quindi quando Vincenzo mi ha parlato dell’Adelchi mi è venuto subito in mente questo ricordo, e l’idea mi ha appassionato. Poi, nella mia lunghissima carriera non ho mai affrontato un tipo di spettacolo di questo genere, piuttosto complesso, con i microfoni e gli auricolari, e questo è stato un altro stimolo.

Uno spettacolo così presuppone un lavoro preparatorio particolare da parte dell’interprete?

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Assolutamente sì. Innanzitutto, il testo, aulico e lirico, pieno di termini che non usiamo normalmente, che va interiorizzato e reso come si deve. Poi, il curioso insieme di musica e recitazione, diciamo che è un concerto musicale, noi con i microfoni e la lettura, con un’orchestra di sette elementi ad accompagnarci, il batterista, bisogna sincronizzare i tempi, gli attacchi, le pause, e in uno spazio scenico piuttosto angusto. Non è semplice, ma è una bella esperienza.

In cosa risiede, a tuo avviso, la modernità di quest’opera?

Nella guerra, questa terrificante costante nella storia dell’uomo, che ci contraddistingue in modo negativo, che continua terribilmente a straziarci. Infatti, anche Desiderio, il mio personaggio, che all’inizio vuole la guerra, alla fine la maledice, ha generato la sconfitta e soprattutto la morte di Adelchi, suo figlio, e quindi in questo senso è sempre un testo autentico. Certo, i versi sono un po’ antiquati come stile, a parte, forse, il racconto del diacono Martino, che nello spettacolo di Gassman lo faceva un giovanissimo Herlitzka, è abbastanza descrittivo. Diciamo che Leopardi, che era venuto prima, era molto più semplice nel verso rispetto a Manzoni. Comunque arriva tutto, è impegnativo ma i significati giungono allo spettatore.

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Nella tua esperienza, c’è differenza, in fase di studio e di prove sceniche, nella preparazione di un testo classico o di uno moderno o contemporaneo?

Certo. Adesso per esempio devo affrontare il Gin Game, un’opera moderna, quando si recita un linguaggio moderno, normale, eccetera, è molto più semplice, ha tutta una logica da seguire. Quando invece è tutto un florilegio di aggettivi, che possono essere scambiati con altri, diventa molto più difficile fissarlo nella memoria, diversa è l’impostazione, e così via.

Prossimi impegni nella stagione che si apre?

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A fine maggio, come ti dicevo, sarò impegnato con Pamela Villoresi nel Gin Game, un testo di Donald Coburn, che si aggiudicò il Pulitzer per la drammaturgia, da noi fu portato in scena da Franca Valeri e Paolo Stoppa, poi da Valeria Valeri e Paolo Ferrari. A fine agosto, dal 23 al 25, andrò in scena con l’Edipo di Seneca, del quale tra l’altro feci una mia riduzione tantissimi anni fa, quando inaugurammo il Festival dei Due Mari. In questo caso c’è una traduzione nuova di Sergio Basile, con l’adattamento di Claudio Collovà, il direttore artistico di Segesta. A fine luglio, inizio agosto, invece, dovrebbe esserci il debutto dei Promessi sposi con la riduzione di Giuseppe Argirò, a Borgio Verezzi. Dovrei fare Manzoni che racconta e poi L’Innominato, mia figlia Micol sarà la Monaca di Monza. Però non ho ancora ricevuto il copione, e la cosa mi inquieta molto.

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