"Il mare ha cambiato colore": quando il teatro parla solo a se stesso

Al CTF Kretzschmar e Boudjelal portano in scena un progetto che non riesce a toccare il pubblico, replicando la distanza che denuncia

Il mare ha cambiato colore - CTF - recensione e ph Alessia de Antoniis
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6 Luglio 2025 - 15.11


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di Alessia de Antoniis

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Al Campania Teatro Festival è andato in scena “Il mare ha cambiato colore (La mer a changé de couleur)”, progetto di teatro documentario firmato da Julie Kretzschmar e Bruno Boudjelal. Lo spettacolo nasce da una lunga ricerca transnazionale che attraversa Francia, Tunisia, Marocco e Italia, con l’ambizione di costruire una narrazione intima sulle migrazioni nel Mediterraneo.

Il titolo riprende una frase di Pasolini del 1959 che, affacciandosi sulla baia di Napoli al tramonto, annotava: “Il mare ha cambiato colore”. Una citazione che diventa chiave per leggere il Mediterraneo come paesaggio simbolico di transito, trasformazione, speranza e perdita. In scena gli stessi Julie e Bruno seduti di spalle al pubblico, schermi che proiettano testimonianze, mappe, frammenti. Nessuna frontalità, nessun contatto. Una scelta formale netta, che si rivelerà fatale.

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Lo spettacolo si articola come un dispositivo meta-narrativo, tra lecture-performance e montaggio documentario. Bruno e Julie riflettono sul senso del loro raccontare. Lui rivendica la finzione come forma di verità emotiva. Lei dubita: “Credi che basti dire che il tuo desiderio è autentico perché tutti questi incontri siano legittimi?” La tensione tra documentazione e rappresentazione attraversa tutto il lavoro.

Ma il paradosso è evidente: mentre si parla di prossimità, la messa in scena produce distanza. Il pubblico non è raggiunto emotivamente. Silenzio in sala, disorientamento. Il pubblico non aveva neanche capito che lo spettacolo fosse terminato. Il materiale è potente, ma l’effetto è neutro. È un problema di forma comunicativa, non di contenuti.

L’uso delle immagini risulta inefficace. Dopo anni di sovraesposizione mediatica, vedere corpi di migranti non genera più reazione. Siamo assuefatti. È qui che si affaccia il rischio del tokenismo: l’utilizzo simbolico di soggetti marginalizzati senza reale trasformazione nei meccanismi di potere. Una dinamica che, in questo caso, lo spettacolo non decostruisce.

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Anche l’aspetto linguistico, per quanto ricco (francese, arabo, italiano), non riesce a costruire vera relazione. Momenti toccanti, come la storia di Douglas che taglia i suoi dreadlocks per non essere riconoscibile, restano confinati in uno spazio audiovisivo che il pubblico osserva ma non abita. Il teatro si riduce a conferenza multimediale. Senza rischio, senza contatto.

Viene da chiedersi: dopo anni di immagini ben più cruente, che senso ha uno spettacolo così? La risposta, forse, è già nei dubbi espressi in scena da Julie e Bruno. Ma se il loro obiettivo era “creare uno spazio che non annulli la presenza dell’altro”, bisogna riconoscere che quel tentativo è fallito. L’altro resta schermo, non incontro.

Il vero nervo scoperto è l’intellettualismo che dimentica l’emozione. È una sindrome diffusa nel teatro d’autore contemporaneo, dove spesso si confonde la complessità concettuale con la qualità artistica. La questione dell’assuefazione alle immagini è particolarmente acuta. Mostrare, ancora una volta, corpi di migranti senza inventare un nuovo dispositivo, rischia di essere non solo inefficace, ma controproducente.

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Il paradosso dell’intero lavoro è lampante: mentre il testo parla di incontro, la messa in scena genera distanza. È quasi una metafora involontaria dell’Europa che si racconta accogliente ma continua a costruire muri. Un teatro che intende denunciare la distanza, ma finisce per replicarla.

“Il mare ha cambiato colore” è un progetto necessario nelle intenzioni, onesto nei presupposti, stratificato nei contenuti. Ma in teatro non basta avere ragione: bisogna trovare il gesto che faccia passare il senso. E in questo caso, la macchina scenica non è riuscita a farlo accadere. Il rischio, quando il teatro parla solo a se stesso, è quello di mancare l’unico vero obiettivo: toccare chi guarda. Non solo la mente. Anche il cuore.

Visto alla Sala Assoli di Napoli il 30 giugno 2025, nell’ambito della XIX edizione del Campania Teatro Festival – replica delle ore 18:00

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