Al Ctf Palestina e genocidio sono parole non censurate
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Al Ctf Palestina e genocidio sono parole non censurate

Najwan Darwish, tra i più lucidi poeti arabi contemporanei, porta al festival campano la sua Palestina fatta di alberi e parole

Najwan Darwish al Campania Teatro festival - ph Alessia de Antoniis - intervista
Najwan Darwish al Campania Teatro Festival
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8 Luglio 2025 - 22.20


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Il Campania Teatro Festival ha dedicato uno spazio al Mediterraneo come crocevia di culture e memorie. Tra gli appuntamenti più intensi del focus Now Med – Beyond Swana, l’incontro con Najwan Darwish ha lasciato un segno profondo. Poeta, editore e saggista, Darwish è tra le voci più lucide e radicali della scena culturale araba contemporanea.
Da quell’incontro nasce questa intervista: per capire cosa significa oggi essere palestinese e cosa vuol dire continuare a dare voce a un popolo che molti vorrebbero cancellare dal discorso pubblico.

Sul suo sito c’è scritto che è di Gerusalemme, Palestina…

Molti credono che esistano due Paesi, uno chiamato Palestina e uno Israele, che si combattono. Ma c’è solo una terra, piccolissima, che già i Romani chiamavano Palestina. Ciò che è accaduto nel 1948 è un progetto coloniale, nato da una rete di affaristi corrotti e poteri economici internazionali che hanno legittimato un’occupazione militare. I politici del ’48 non erano migliori di Trump. Io non riconosco Israele: per me è una colonia e nego a ogni potere coloniale il diritto a esistere. Nessuno Stato è sacro. Neanche il Vaticano.

Una delle sfide più dolorose è raccontare la Palestina con parole semplici: persone di trent’anni che non hanno mai visto il mare, gente a Gaza che non ha mai visto le montagne.

Cosa significa essere poeta nella lotta per la sopravvivenza palestinese?

Non siamo cronisti. Il nostro compito non è descrivere Gaza. È dire ciò che Gaza significa. La poesia non racconta il sangue: racconta cosa resta quando il sangue si secca. Essere poeta oggi è accettare di non essere ascoltato subito. Ma sapere che le parole, quelle vere, trovano sempre la loro strada. Anche nei deserti. L’albero della poesia palestinese è stato bruciato più volte. Ma ogni volta, da sotto la cenere, è spuntata una radice. Finché ci saranno parole, non saremo sradicati. Scrivere, oggi, è piantare alberi in mezzo al fuoco.

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Come si può credere ancora nella parola davanti a uno sterminio?

La parola è ciò che ci rimane quando ci tolgono tutto. È importante insegnare ai giovani che scrivere non è solo un diritto, ma un dovere. Che anche se non possono cambiare il mondo, possono almeno non farselo rubare dentro. Che la lingua è un luogo: se ci negano la terra, ci rifugiamo nelle parole. È una patria più fragile, sì, ma è l’unica che non possono bombardare.

Scrivere poesia in piena occupazione è come respirare sott’acqua: non lo scegli, lo fai perché è l’unico modo per restare umano. Io scrivo per ricordare ciò che cercano di cancellare: le voci, i nomi, i luoghi.

Nella sua poesia gli alberi hanno un ruolo centrale. Come simbolo di vita?

In Palestina, gli alberi hanno due volti. Una delle scene più crudeli che io abbia mai visto è stata il taglio degli alberi, soprattutto degli ulivi. I coloni israeliani lo fanno spesso. Ma hanno fatto qualcosa di ancora peggiore nel 1948: ogni volta che occupavano un villaggio palestinese, per cancellarlo, piantavano alberi al suo posto. Quindi oggi, quando attraversi un parco, molto probabilmente sotto c’è un villaggio distrutto. Distruggevano le case e, sopra, piantavano alberi. Così, un simbolo di vita diventava un simbolo coloniale. E hanno fatto anche altro. Hanno iniziato a piantare alberi importati, che non appartenevano al territorio. Questo ha creato problemi ecologici, perché la natura della Palestina è diversa. Ci sono aree boschive, deserti, uliveti… Non puoi trasformarla tutta in una “Svizzera verde” come nella fantasia sionista.

La raccolta che ho scritto, intitolata “Ho scritto Alberi per sbaglio”, nasce da un equivoco. Stavo cercando di scrivere una poesia sulle persone malvagie, ma per errore ho scritto alberi. Le due parole, in arabo, differiscono di una sola lettera. Così la poesia, nata per parlare della crudeltà umana, è diventata una poesia sugli alberi. Per sbaglio.

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Esiste una letteratura dell’esilio palestinese e come si confronta con quella ebraica, soprattutto oggi?

La letteratura palestinese dell’esilio non è mai stata riconosciuta come “centrale”, né dal mondo arabo né dall’Occidente. Esiste, sì, ma è stata trattata come testimonianza, non come letteratura. L’esilio ebraico è stato narrato come trauma universale. L’esilio palestinese è stato silenziato o reso marginale. Noi non abbiamo solo una diaspora: abbiamo molteplici esili, imposti e anche interiorizzati. E lottiamo per far riconoscere la nostra voce come voce della modernità, non solo della sofferenza. Mahmoud Darwish diceva: «Scriviamo perché siamo qui, non perché siamo scomparsi.» Ecco: la poesia palestinese dice “io esisto”, e lo fa dentro la Storia.»

Si parla sempre, e da sempre, di diaspora del popolo ebraico. Dal 1948 assistiamo alla diaspora del popolo palestinese. Ma di questa non ne parla nessuno. E allora quanto sono complici i media, sia occidentali che arabi? Che ruolo ha la poesia davanti a un genocidio?

L’informazione in Occidente è particolare ed è una combinazione di complicazione e ignoranza. È piena di stereotipi e di questi non voglio saperne più nulla. Sono confuso dagli stereotipi sui britannici, sugli irlandesi, sui partiti. Anche parlare di solidarietà è qualcosa di molto pericoloso. A volte, quando sento la parola “palestinesi”, in arabo, ho l’impressione che stiano parlando di animali. Quando leggo un articolo sui palestinesi, immagino che stiano descrivendo una bestia. È così che veniamo disumanizzati. E noi dobbiamo reagire. Non con la violenza, ma con il linguaggio. Anche il silenzio, a volte, è complicità.

Una volta, in Corea, entrai in un tempio buddista e trovai una biblioteca. C’era un unico libro di poesie in inglese, scritto da un monaco buddista. In una poesia scriveva: “Perché continuiamo a dire che stiamo andando e tornando se la Terra è una sola?”.

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Quanto è difficile oggi riuscire a stabilire i fatti oltre gli stereotipi?

Penso che il nostro compito sia presentare un racconto onesto della nostra esperienza, individuale o collettiva, e lasciarla alla realtà, alla storia, agli esseri umani. Si parla di diverse: quella ucraina, quella palestinese, ma tutte le cause non appartengono a popoli specifici. Le persone, oggi, mancano di immaginazione. Pensano che, se qualcosa accade, sia distante. Che il fuoco sia lontano. Che il genocidio sia colpa d’altri. No, il genocidio può continuare. Senza assunzione di responsabilità, continuerà. In Palestina affrontiamo la crisi dei genocidi europei. In Nord America, in Centro America, c’è un genocidio dimenticato in Spagna. C’è il genocidio armeno e tutti quelli in atto ora. I genocidi possono continuare, apparire altrove. Non c’è un inizio né una fine. Noi siamo la continuità di molti genocidi della storia. E non credo che nessuno al mondo sia al sicuro da questi genocidi.

La gente mi dice: “Io sto con i rifugiati”. Ogni essere umano sulla terra è un rifugiato. Del passato, del presente o del futuro. Chi ti dice che i tuoi figli non saranno rifugiati? Un piccolo Paese può renderti rifugiato. Il movimento sionista può farlo. Chiunque può farlo. Il problema degli esseri umani è la mancanza di immaginazione. Basterebbe solo non dire empatia, ma immaginazione.

 È un poeta politico per scelta o “per sbaglio”?

Io non ho scelto di essere “un poeta politico”: lo è diventata la mia poesia quando il mio popolo è stato cancellato dalle mappe. Quando vivi l’ingiustizia, ogni parola che non nomina quella realtà diventa una complicità.

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