di Alessia de Antoniis
Più organismi finanziati, meno soldi. È questo il primo paradosso del nuovo triennio FNSV 2025–2027. I numeri ufficiali dicono che 781 soggetti (esclusa la musica) hanno ottenuto sostegno pubblico: 36 in più rispetto al 2024. Aumentano le attività teatrali (+27) e addirittura quelle circensi (+33). Ma la dotazione economica resta “di poco inferiore” a quella dell’anno precedente. Tradotto: più bocche, meno pane.
Un sistema che si allarga senza aumentare i fondi è un sistema che distribuisce povertà. Altro che crescita: è una frammentazione che rischia di compromettere la tenuta del settore. Gli operatori, storici e nuovi, si trovano a condividere una coperta troppo corta, in un gioco a somma zero dove l’ammissione al Fondo vale sempre meno.
Ma non è solo questione di soldi. Il vero scarto, politico e culturale, è nei criteri con cui vengono valutati i progetti. Le voci critiche parlano chiaro: a essere premiata non è più la qualità artistica, ma la capacità di apparire sostenibili, numericamente competitivi, logisticamente convenienti. La bellezza? Un optional.
Nel settore Multidisciplinare, ad esempio, la commissione ha dichiarato che alcuni progetti avessero “un costo medio per spettatore esorbitante”. Peccato che questo parametro non sia di loro competenza. Eppure è bastato per generare una valutazione negativa. È come se si giudicasse una poesia in base al numero di copie vendute: perfettamente legale, perfettamente disonesto. E profondamente culturicida.
C.Re.S.Co. – la rete nazionale che rappresenta più di 250 realtà della scena contemporanea – denuncia l’esclusione dal confronto sulla stesura del decreto ministeriale. Una rottura politica, prima ancora che procedurale. Non è solo una questione di trasparenza: è la conferma che una parte viva, sperimentale, generativa del sistema culturale viene silenziata in partenza.
Il meccanismo peggiora se si osservano i settori specifici. La Danza resta marginale, con il tasso di ammissione tra i più bassi. Chi lavora nei linguaggi non convenzionali viene penalizzato da criteri che favoriscono l’occupazione delle sale, come se il valore artistico si potesse misurare in biglietti staccati.
Il Circo, invece, cresce numericamente (+33), ma in modo opaco. Sedici degli organismi ammessi non hanno un sito attivo né una presenza digitale verificabile. Come sono stati valutati? Con quali criteri?
Due membri delle Commissioni sono stati costretti ad astenersi dalla valutazione di quasi un terzo delle domande per conflitto d’interesse. Il risultato? Una fetta consistente del sistema è stata giudicata da pochissime persone, trasformando la discrezionalità in arbitrio.
Poi c’è il caso emblematico delle tournée internazionali: 39 progetti, nessuno ammesso. Nessuno. Motivo? “Carenza di qualità artistica”. A fare la differenza sono ora la continuità, il prestigio istituzionale e la capacità di raccogliere fondi privati. L’arte, insomma, deve dimostrare di avere già successo per essere finanziata. È la morte del rischio culturale. E la conferma che lo Stato investe solo dove ha già guadagnato.
Ma è nel campo della Promozione che la crisi diventa miopia. I punteggi assegnati alla qualità artistica crollano proprio nei parametri più vitali: –10 punti sul ricambio generazionale, –7 sulla coesione sociale. Come se il futuro non fosse una priorità. Come se l’idea stessa di pubblico fosse scomparsa dalle strategie di investimento.
Tutto questo si innesta su una frattura territoriale storica: Nord iper finanziato, Sud e Isole sistematicamente marginalizzati. Alle voci Teatro, Danza, Promozione, la distribuzione è squilibrata. A pagare il prezzo sono le comunità già periferiche, per geografia e per economia. È un modello di sviluppo che consolida le disuguaglianze, altro che riequilibrarle.
Il sistema dello spettacolo dal vivo è come un intricato mosaico. Se si aggiungono nuove tessere senza aumentarne la dimensione complessiva, o se alcune tessere vengono valutate non per la loro bellezza e unicità, ma per il loro peso o il costo di produzione, e se intere sezioni del mosaico vengono trascurate, il risultato finale non sarà un capolavoro armonioso, ma un’opera frammentata, che rischia di perdere la sua identità e la sua capacità di incantare.
La politica culturale non può ridursi a un calcolo di performance. Il finanziamento pubblico ha senso solo se fa accadere ciò che non accadrebbe altrimenti. Se non sostiene la sperimentazione, la prossimità, il gesto artistico che resiste alle regole del mercato, allora è un sussidio d’immagine. Non un atto di governo.
E non certo coerente con l’articolo 9 della Costituzione, che impone alla Repubblica di tutelare il patrimonio storico e artistico della Nazione. “Tutela” non significa assegnare punteggi. Significa proteggere, sostenere, prendersi cura.