La durezza di Fassbinder con la voce dei ventenni

Al Ginesio Fest il coraggio della formazione: i ragazzi del TST diretti da Leonardo Lidi raccontano esclusione, desiderio e marginalità

Leonardo Lidi sceglie Fassbinder per le restituzioni dello Stabile di Torino al GinesioFest - Ph Ester Rieti - di Alessia de Antoniis
I ragazzi della scuola del Teatro Stabile di Torino al Ginesio Fest - Ph Ester Rieti
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

27 Agosto 2025 - 23.12


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di Alessia de Antoniis

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Due debutti nazionali per due testi di Rainer Werner Fassbinder. Una scelta né comoda né accomodante, ma la dichiarazione di poetica che Leonardo Lidi ha voluto per i ragazzi del primo anno della Scuola del Teatro Stabile di Torino. Il Ginesio Fest diventa così palcoscenico non solo di artisti affermati, ma anche di una nuova generazione che si misura con l’asprezza del reale e con il rigore di un autore che non ha mai concesso indulgenze.

Non si tratta di “saggi scolastici”, e la definizione di restituzioni di residenza chiarisce la natura dell’operazione: lavori che nascono dentro un percorso formativo, eppure già consegnati a un pubblico festivaliero. Atto di fiducia da parte dello Stabile di Torino, che ha scelto San Ginesio come luogo per il primo incontro con la platea. E loro, giovanissimi, spesso acerbi, non hanno deluso. Coraggiosi fino in fondo. Animati da quel Furore che era il titolo di questa edizione del festival.

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Katzelmacher: provincia tedesca, anni Sessanta. Una comunità chiusa, di giovani senza futuro, costretta a specchiarsi nella presenza muta di uno straniero venuto dalla Grecia per lavorare. Katzelmacher è un congegno teatrale asciutto, tagliente, dove l’arrivo dell’altro diventa detonatore di violenza e di paura.
La regia di Lidi sottrae le battute al personaggio dello straniero: silenzio che costringe gli spettatori a diventare essi stessi stranieri, esclusi, osservati. Intorno, un coro giovanile che alterna indolenza e crudeltà, desiderio e frustrazione, in una provincia incapace di emanciparsi.

Diverso il tono di Un anno con tredici lune, tratto da un film e riportato sulla scena come esercizio melò e visionario. Elvira, donna allo specchio, ripercorre la sua vita segnata dall’amore e dal dolore, in un equilibrio precario tra realtà e finzione. Identità di genere, solitudine, marginalità: temi che i ragazzi affrontano con un linguaggio frammentario, quasi onirico, tra confessioni e apparizioni, tra desiderio e morte.

Se Katzelmacher è macchina perfetta, Un anno con tredici lune appare come una mela caramellata: un melò che sa essere dolce e crudele, con un cuore troppo caldo dentro un gelo tedesco – ammette Lidi all’indomani delle due restituzioni.

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Perché Fassbinder? Un autore così crudo per la restituzione di ragazzi del primo anno…

C’è una frase che apre Katzelmacher in cui Fassbinder scrive: “Volevo fare uno spettacolo con dei personaggi più anziani, ma alla fine l’ho fatto con la mia compagnia ed è uscito questo”.
Questa frase, che sembra banale, in realtà parla di coraggio. La scuola può insegnarti la tecnica, ma deve anche instillare coraggio, forse legato a un furore giovanile che mette in moto la macchina. Io dico sempre che la mia fortuna è stata iniziare giovanissimo, fare regie nella mia città, mettermi insieme a persone che conoscevo. Poi pian piano ci si affina, si incontrano i grandi attori, ma bisogna cominciare. Fassbinder non ha mai avuto paura di questo, né in teatro né al cinema.

Di fronte a un autore così cinematografico, cosa hai dovuto levare per portarlo in teatro?

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Su Katzelmacher niente, perché è un testo prettamente teatrale. Su Un anno con tredici lune l’operazione è diversa, perché è un film in tutto e per tutto. L’abbiamo usato come esercitazione. Mi piaceva associare due condizioni di disagio: lo straniero che arriva in un paesino di provincia e la persona che, dopo aver cambiato sesso per amore, si ritrova comunque con gli occhi addosso di una provincia cattiva, di “macellai”, come dice il protagonista.

Come hanno reagito i ragazzi quando hai detto loro: Fassbinder? Hai lasciato spazio ai loro contributi?

Dico sempre ai ragazzi che li tratto come attori in tutto e per tutto, anche in fase creativa. Loro contribuiscono dentro uno scheletro di regia molto chiuso: questo personaggio deve andare da A a B e poi da B a C. Ma come riempire quello spazio dipende anche dalla loro creatività, dai loro talenti: c’è chi ha più corpo, chi più musica, oltre alla recitazione.

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Qual è stato il rischio maggiore nel portare in scena un autore così crudo con ragazzi così giovani?

Era un debutto di fuoco: primo anno, subito davanti alla platea, anche di critica, dentro un festival che sta diventando di rilievo nazionale, con membri della giuria Ubu in sala. Ho cercato di metterli a loro agio, ma anche in difficoltà, perché gli step si fanno così. Penso siano felici di questa opportunità.

Lo Stabile di Torino ha deciso di aspettare il Ginesio Fest per mostrare questi lavori. Perché non in sede?

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È un atto di fiducia importante anche nei miei confronti. Queste produzioni erano già provate a scuola, ma si è deciso di debuttare a San Ginesio. Non è una cosa scontata, e per questo sono molto contento.

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