di Alessia de Antoniis
L’età della selezione. L’audiovisivo italiano alla prova della qualità
Dopo un decennio di crescita trainata da incentivi, piattaforme e tax credit, l’audiovisivo italiano entra nella sua fase matura: quella della selezione. È quanto emerge dal 7° Rapporto APA sulla produzione audiovisiva nazionale, presentato da Chiara Sbarigia al MIA di Roma. Un documento che, dietro la consueta trama di cifre, lascia intravedere un cambio di paradigma: dal mercato spinto dalla domanda (demand driven) a uno spinto dal prodotto (product driven).
“La televisione lineare resta il primo mezzo audiovisivo, con il 52% del totale del settore,” ricorda Sbarigia, “ma la vera crescita oggi non è più nei volumi, bensì nel valore.”
È il segnale di un cambio d’epoca: il costo complessivo di produzione delle opere italiane è salito del 10%, segno di un’industria che investe di più per produrre meno, tentando di alzare la qualità media. Il tempo dell’abbondanza è finito.
“Servono rigore, certezza, prevedibilità nei tempi e nelle regole,” aggiunge poi Sbarigia. È un messaggio che suona come un monito: il sistema degli aiuti pubblici, che ha sostenuto la crescita, rischia ora di frenarla se non sarà semplificato e reso stabile. L’industria chiede politiche culturali più lungimiranti, capaci di dare tempo ai produttori di programmare e ai talenti di restare.
Un mercato che si consolida
Il settore si muove su una linea sottile tra consolidamento e frammentazione. Le società di produzione sono oltre 250, ma tre quarti non superano un titolo a stagione. Al tempo stesso, la quota dei produttori indipendenti torna a crescere, segno di vitalità ma anche di fragilità strutturale. L’Italia resta un laboratorio di pluralismo creativo, ma la taglia ridotta delle imprese e l’incertezza normativa ne limitano la forza d’urto.
Nel frattempo, i broadcaster tradizionali e le piattaforme globali ridefiniscono le proprie strategie. Per la prima volta, più che la quantità dei titoli, conta la “tenuta” del prodotto. In un ecosistema sovraccarico, la vera moneta è l’attenzione.
La qualità come nuova frontiera
Nel panel che segue la presentazione, moderato da Massimo Scaglioni, i principali protagonisti del mercato – Rai, Mediaset, Netflix, Sky e Prime Video – provano a dare un volto alla parola “qualità”.
Per Maria Pia Ammirati (Rai Fiction), è la capacità di parlare a pubblici diversi senza perdere autorevolezza: “La qualità deve andare d’accordo con la quantità”. Il servizio pubblico resta, di fatto, il maggiore investitore nazionale, ma con un budget fermo da dieci anni e un canone tra i più bassi d’Europa. “Abbiamo bisogno di varietà e di apertura internazionale: raccontare l’Italia anche fuori dall’Italia.”
Daniele Cesarano (Mediaset) sposta l’attenzione sulla crisi autoriale: “Non troviamo sceneggiatori. Fare remake è diventata una necessità, non una scelta”. Il problema, più che economico, è culturale: mancano nuove voci disposte a misurarsi con la fiction generalista.
Eleonora Andreatta (Netflix) ribalta la prospettiva: “Mainstream e qualità non sono in contraddizione”. Per la piattaforma americana, la strategia resta quella del radicamento locale unito all’ambizione globale. “Una bella storia può nascere ovunque. L’importante è che abbia un’identità forte e parli al presente.”
Da Sky Studios, Nils Hartmann invita a ridimensionare l’overproduction degli anni post-pandemia: “Siamo arrivati a un tetto. Oggi il successo non si misura più solo con gli ascolti, ma con la completion rate e il fan score.”
Prime Video, per voce di Viktoria Wasilewski, sposta il discorso su un terreno più olistico: “La qualità nasce dall’ascolto del pubblico e dall’innovazione dei formati. Dal cinema allo sport, tutto è racconto.”
Tecnologia e creatività: il nuovo confine
Sullo sfondo, il tema più divisivo è quello dell’intelligenza artificiale. Ammirati la considera un attore “capace di incidere in modo rapido e forse violento sui linguaggi”; Cesarano, al contrario, la definisce “una rivoluzione linguistica” da cui nasceranno nuove forme di narrazione. È la nuova faglia del settore: tra chi teme la perdita dell’autorialità e chi intravede nella tecnologia l’occasione per reinventarla.
L’Italia come caso europeo
In controluce, il quadro italiano somiglia a quello dell’Europa intera: un’industria che, dopo l’ubriacatura dell’espansione, cerca equilibrio tra crescita economica e sostenibilità culturale. Il tax credit ha funzionato da volano, ma non può sostituirsi a una politica industriale stabile. La produzione indipendente è vitale ma frammentata, la televisione pubblica resta centrale ma sottofinanziata, le piattaforme globali portano capitale e concorrenza ma anche nuove asimmetrie.
Il messaggio del Rapporto APA, e del MIA che lo ospita, è chiaro: la vera sfida non è più produrre di più, ma produrre meglio.
E forse è proprio qui, in questa tensione tra creatività e struttura, che l’audiovisivo italiano può ancora giocare un ruolo europeo: piccolo per dimensioni, ma grande per immaginazione.