Rosencrantz e Guildenstern sono morti e Shakespeare incontra la Commedia dell’Arte

All’Ambra Jovinelli di Roma fino al 16 novembre, Acquaroli, Pannofino e Sassanelli danno ritmo e intelligenza a un testo insidioso

Francesco Pannofino - Francesco Acquaroli - Paolo Sassanelli - Rosencrantz e Guildenstern sono morti - teatro Ambra Jovinelli - recensione di Alessia de Antoniis
Francesco Pannofino - Francesco Acquaroli - Paolo Sassanelli - Rosencrantz e Guildenstern sono morti
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

7 Novembre 2025 - 00.09


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di Alessia de Antoniis

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Arriva a Roma Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Tom Stoppard (Ippogrifo Produzioni, Estate Teatrale Veronese). Per la regia di Alberto Rizzi, con Francesco Pannofino, Francesco Acquaroli e Paolo Sassanelli, è in scena all’Ambra Jovinelli fino al 16 novembre.

Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Tom Stoppard rimane, a distanza di quasi sessant’anni dalla prima, una proposta teatrale insidiosa: densa di disquisizioni filosofiche, statica nella struttura e con l’esigenza che il pubblico si confronti con concetti astratti su destino, identità e illusione teatrale. La produzione italiana diretta da Alberto Rizzi, riesce dove altri allestimenti falliscono: rende divertente il teatro intellettuale.

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L’idea felice di questo allestimento risiede nella decisione di Rizzi di innestare l’umorismo britannico di Stoppard sulla tradizione fisica della Commedia dell’Arte. Quello che avrebbe potuto essere un esperimento accademico diventa un successo, trasformando Rosencrantz e Guildenstern in maschere tragicomiche; moderni Zanni che inciampano attraverso un dramma shakespeariano che non riescono a comprendere.

La scelta risolve il problema intrinseco del testo: dove due personaggi fondamentalmente passivi devono mantenere l’attenzione del pubblico per un’ora e venti, la fisicità della Commedia dell’Arte compensa la loro staticità.

Pannofino, Acquaroli e Sassanelli sono l’arma segreta della produzione. I loro decenni di esperienza scenica permettono loro di navigare i campi minati verbali di Stoppard con tempismo corretto, sapendo esattamente quando disinnescare la densità filosofica con un gesto, una pausa o un’inflessione vocale calibrata.

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La sequenza d’apertura, dove lanciano una moneta che cade su “testa” per 92 volte consecutive, potrebbe essere pura astrazione matematica. Nelle loro mani diventa un numero di clownerie. La confusione ricorrente sui loro nomi, scambiati persino dal re e dalla regina, diventa una running gag che alleggerisce strategicamente i momenti più densi. Il “gioco delle domande”, dispositivo potenzialmente ostico con le sue regole pedanti (niente ripetizioni!, niente sinonimi!), si trasforma in un numero da vaudeville dove la sconfitta dialettica diventa comicità.

Paolo Sassanelli, nel ruolo del Capocomico, porta il necessario cinismo disincantato. È la figura che “sa”: sa che tutto è teatro, che le morti sono finte, che il destino è già scritto. Il suo monologo sull’attore realmente impiccato durante una rappresentazione è un momento di brillante riflessione metateatrale reso accessibile attraverso l’ironia tagliente di Sassanelli.

Nella versione di Rizzi, il cast ridotto a cinque attori obbliga Sassanelli, Andrea Pannofino e Chiara Mascalzoni a interpretare tutti gli altri ruoli: una scelta che si rivela vincente grazie alla loro versatilità.

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La vera scoperta è Andrea Pannofino, giovane attore emergente assolutamente da tenere d’occhio. Figlio d’arte (sua madre è la famosa doppiatrice Emanuela Rossi), dimostra di possedere una presenza scenica autonoma e matura, capace di reggere il palcoscenico accanto a veterani del calibro di suo padre Francesco, Acquaroli e Sassanelli senza mai risultare intimidito o fuori posto. La sua capacità di passare tra ruoli diversi con naturalezza suggerisce un talento destinato a farsi strada.

Altrettanto notevole Chiara Mascalzoni, divertentissima soprattutto quando interpreta Gertrude, la regina madre di Amleto. La sua versatilità nel passare da un personaggio all’altro, mantenendo sempre chiarezza e ironia, aggiunge energia e freschezza a una compagnia dove l’esperienza potrebbe rischiare di essere ingombrante. Insieme completano un ensemble perfettamente bilanciato, dove ogni elemento funziona al servizio della visione complessiva.

La macchina scenica di Luigi Ferrigno non è mero décor ma elemento drammaturgico essenziale. Questo marchingegno, che fonde il carro della Commedia dell’Arte con il palcoscenico elisabettiano a due piani, diventa strumento per combattere la sfida più grande del testo: personaggi che per definizione non agiscono, aspettano. La scenografia si trasforma così da teatro (per le prove della compagnia itinerante) a castello (per gli incontri con Amleto) a nave (per il viaggio finale verso l’Inghilterra e la morte). Crea ritmo visivo e separa chiaramente i quadri.

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È uno spettacolo da vedere?

Come la moneta che continua a cadere su testa, questo spettacolo vince contro ogni probabilità. Prende un testo cerebrale, metateatrale, filosoficamente denso, e lo trasforma in serata di teatro intelligente e divertente. Fa ridere, fa pensare e lascia con la sensazione vagamente inquietante che anche noi, come R&G, potremmo essere solo comparse in una storia scritta da altri.

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