di Rock Reynolds
Talvolta, cominciare dalla fine è il sistema migliore per dipanare il filo della realtà e dare un senso a una matassa che, altrimenti, atterrirebbe le coscienze al punto da svilirne l’umanità e da annebbiarne la razionalità. Jean-Pierre Filiu è un professore universitario, specializzato in studi mediorientali, nonché diplomatico di lungo corso. Tra il dicembre 2024 e il gennaio 2025, ha trascorso un mese a Gaza e ha consegnato a un diario le sue sensazioni, lui che quella terra devastata la visitava a più riprese dal 1980. Niente mi aveva preparato. Un reportage da Gaza (Altrecose, traduzione di Silvia Manzio, pagg 225, euro 19) quello è: un resoconto straziato di ciò a cui si era ridotta la Striscia di Gaza che lui ben conosceva, redatto sotto forma di cronaca quasi quotidiana.
Dal 7 ottobre 2023, Gaza è l’anticamera del peggior inferno che i libri sacri delle religioni monoteiste abbiano mai descritto. A noi occidentali, che viviamo nel lusso della sicurezza e nell’assuefazione alle tragedie lontane, non resta che riflettere sulla nostra condizione privilegiata e su quanto ottunda i sensi e la capacità di indignarsi e di far seguire allo sdegno l’azione popolare che, in qualsiasi democrazia che davvero si consideri tale, dovrebbe essere il carburante di una politica in grado di esercitare pressioni internazionali concrete. L’unica cosa positiva che, viceversa, mi sia capitato di fare da quel giorno infausto è informarmi, leggere tutto il possibile sul rapporto travagliato tra il popolo palestinese e quello israeliano e su quello inesistente tra i due stati, considerato che a uno dei due non è mai stato consentito di vedere la luce. Molti dei testi da me letti mi hanno rincuorato sul fatto che si possa scrivere pagine di giornalismo a cuore aperto, senza per questo farlo a detrimento della verità e della lucidità, che non devono mai mancare.
Consapevole dei rischi che correva in un territorio comunque soggetto alle costanti incursioni delle forze militari israeliane, per quanto le zone in cui gli era consentito muoversi fossero dichiarate “sicure”, e ancor più conscio del privilegio di poter toccare con mano la realtà da girone dantesco di Gaza con qualche comodità in più rispetto alla popolazione locale e, soprattutto, con la convinzione di poter tornare a casa sano e salvo, Jean-Pierre Filiu racconta l’indicibile, testimoniandolo in modo progressivamente più partecipe. È forte la sensazione che a muovere la penna di Jean-Pierre Filiu inizialmente sia l’imbarazzo nel mostrare da che parte stia. Ma la presa di posizione si fa sempre più netta. Per questo, ho deciso di iniziare quasi dalla fine, con le parole da lui annotate nella penultima pagina del suo resoconto: «Gaza è crollata sulle norme di un diritto internazionale pazientemente costruito per scongiurare il ripetersi delle barbarie della Seconda guerra mondiale. Gaza è crollata sui codici di una diplomazia che aveva le sue regole e le sue debolezze, ma che tendeva a pacificare le controversie piuttosto che a esacerbarle. Gaza è ormai in balia degli stregoni del transazionale, degli artiglieri dell’intelligenza artificiale e degli avvoltoi della miseria umana». Più chiaro di così.
Filiu aggiunge, amaramente, che il veto opposto per ben quattro volte dagli USA «a un appello del Consiglio di sicurezza dell’ONU per un cessate al fuoco immediato a Gaza e per la liberazione incondizionata degli ostaggi israeliani» ha concesso a Netanyahu la prosecuzione di «una campagna di una violenza inaudita contro le Nazioni Unite».
Naturalmente, Filiu ne ha per tutti: per l’ignavia intollerabile della società perbenista occidentale, per il suo doppiopesismo nei confronti della questione palestinese rispetto a quella ucraina, per l’insensata spinta bellicista e l’incapacità europea di prendere una posizione netta e non salomonica, per la scelta degli USA di fare di Israele il suo pressoché unico alleato vero, per l’aggressività di Hamas, bullo di quartiere, che poco ha realmente a cuore le sorti del suo popolo e che, insieme ad altre bande di disperati più prossimi a organizzazioni malavitose che a eserciti di liberazione, Israele cerca di manovrare a proprio vantaggio. Perché «quello che sta succedendo a Gaza aveva, ha e avrà un valore universale». Perché, negare ai palestinesi una terra e uno stato, mascherando l’insensata spinta colonialista di ispirazione messianica con le solite motivazioni inerenti alla sicurezza, «non ha risparmiato a Israele la giornata più sanguinosa della sua storia». Quel giorno non è scoppiata una guerra, in realtà ininterrotta dal 1948, con la Nakba Quel giorno l’ha solo accelerata e ne ha enfatizzato gli aspetti più deleteri e, soprattutto, la conta delle vittime e dei disastri, risvegliando però «nella popolazione israeliana l’angoscia dell’annientamento che tormentava i sostenitori del sionismo nell’autunno del 1947, due anni e mezzo dopo la liberazione dei campi di concentramento».
In un ambiente in cui, dall’ottobre del 2023, praticamente ogni giorno viene ucciso un centinaio di persone, la sindrome del sopravvissuto (che certo non squarcia a sufficienza il velo delle coscienze di un’Europa quiescente) è quasi più preoccupante del lutto per i suoi cari ammazzati. Un popolo intero ha bisogno di elaborare enormi sofferenze. Le cifre sono impietose: mutilati, feriti, orfani, malati infettivi, depressi ormai cronici. Un «punto di non ritorno nella discesa agli inferi» in cui è venuto del tutto a mancare un limite, una linea rossa invalicabile: per Israele sono obiettivi legittimi ospedali, tendopoli, scuole, moschee, chiese, code per il pane, cerimonie funebri e, quando non possono esserlo, Israele bombarda e comunica che potrebbe esserci stato un errore e nemmeno se ne scusa. Non essendo più ammessa alcuna presenza di organi di informazione stranieri, dunque terzi, una delle categorie più a rischio è proprio quella dei giornalisti: spegnerne la vita significa occultare la verità. Naturalmente, si tratta di una strategia insensata e destinata al fallimento, in un mondo costantemente online persino a Gaza, persino, tra le macerie, persino con le difficoltà di connessione che è facile immaginare. A Gaza, nessuno dei giornalisti uccisi è «stato vittima del “fuoco incrociato”, laddove nel resto del mondo gran parte dei reporter muoiono proprio in questo modo. A Gaza non esistono dubbi: il responsabile della morte violenta dei professionisti dell’informazione è sempre e soltanto l’esercito israeliano».
«Niente attira lo sguardo in questo mare di rovine» riflette Filiu, prendendo coscienza del fetore che lo accompagna ovunque, un tanfo di cloache a cielo aperto, discariche in cui i resti putrefatti dei cadaveri si mescolano agli effluvi della polvere degli edifici crollati nei bombardamenti e delle scorie venefiche degli armamenti usati. La vita da profugo a Gaza è peggiore che in altri scenari bellici internazionali proprio perché lo spazio di movimento è ridotto al minimo e dipende dalle bizze – o meglio, dalle scelte sadiche – dell’IDF. Eppure, chi ancora vive cerca di dare una parvenza di dignità alla propria quotidianità. Considerato che, già alla fine del 2024, secondo «le stime dell’ONU sulla catastrofe umanitaria… l’ottantasette per cento degli edifici residenziali… è andato totalmente distrutto… o gravemente o parzialmente danneggiato… Più dell’ottanta per cento delle attività commerciali e i due terzi della rete stradale sono inservibili… 1,9 milioni di donne, uomini e bambini hanno dovuto fuggire tra una e dieci volte», mantenere il sorriso all’alba di un nuovo giorno è indice di incredibile resilienza e voglia di vivere.
