Atomica. Quando colpa è una parola censurata

Muta Imago in prima nazionale al Teatro India, racconta l’illusione più pericolosa della nostra epoca: che l’orrore appartenga al passato

Atomica. Quando colpa è una parola censurata
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

19 Novembre 2025 - 18.32


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di Alessia de Antoniis

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A dispetto della nostra illusione collettiva, quella secondo cui Hiroshima è un capitolo chiuso, una ferita ormai musealizzata, un orrore che non tornerà, Atomica di Muta Imago rimette al centro della scena proprio ciò che preferiremmo non ricordare: la frattura morale dell’umanità davanti al potere della tecnica. Non un discorso storico, né un affresco politico: un corpo a corpo. Due corpi. Due voci. Due vertigini.

Claudia Sorace e Riccardo Fazi tornano al carteggio tra Günther Anders e Claude Eatherly e ne fanno un dispositivo drammatico che agisce come uno schermo a doppia esposizione: da un lato il pensiero, dall’altro la ferita. Il risultato è un teatro che non restituisce una storia, ma una temperatura etica.

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In scena, Gabriele Portoghese (Eatherly) e Alessandro Berti (Anders) incarnano due linguaggi inconciliabili: uno frantumato, emotivo, febbrile; l’altro analitico, verticale, chirurgico. La loro relazione non cerca mai una sintesi: vive di collisioni.

Portoghese costruisce un Claude scosso da un’ossessione che non consuma, ma tiene in vita: la colpa come unica forma possibile di coscienza. Berti è un Anders razionale, implacabile, persino spietato nella lucidità. Un uomo che pensa più di quanto il mondo sia disposto a pensare. Il loro incontro è il cuore dell’opera.

La drammaturgia procede per frantumi di memoria, ripetizioni, ellissi. Il testo scarta continuamente: il film hollywoodiano che vuole fare di Eatherly un “smiling hero”, l’ospedale che chiede di dimenticare, la società che ha bisogno di assolvere se stessa prima di chiunque altro.

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Ricostruzione“, ricorda Claude, “è la distruzione della distruzione“.

La scena è un paesaggio mentale in implosione. Un ambiente astratto, quasi una mente in decomposizione. Il letto, la nebbia che sale dal corpo, le piccole luci che costellano il buio come residui di una costellazione che non esiste più: tutto parla di un uomo che vede fantasmi concreti mentre il mondo lo tratta da malato immaginario.

Il disegno luci di Maria Elena Fusacchia è uno dei punti focali dello spettacolo: tagli netti, accecanti, lampi improvvisi che sembrano esplodere dall’interno del buio. La scena delle linee luminose, che si aprono come una deflagrazione rallentata, un pikadon (È il termine con cui i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki descrivevano l’esplosione atomica: “il lampo e il tuono”) congelato nel tempo, non fa vedere Hiroshima: fa vedere l’impossibilità di guardarla.

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Fazi costruisce la drammaturgia come una partitura bifronte: Anders parla per concetti, Claude per immagini. Uno tenta di organizzare il mondo; l’altro tenta di sopravvivere alle sue macerie. Il ritmo non è facile né accomodante, ma non vuole esserlo: pretende un ascolto attivo, un attraversamento.

Alcuni passaggi rischiano l’eccesso di densità, soprattutto nei monologhi filosofici, ma la tensione tra i due attori tiene insieme anche le zone più faticose. Non è teatro che cerca consenso: è teatro che chiede responsabilità.

Il tema dominante non è la bomba in sé, ma il linguaggio che la circonda. Come si parla di Hiroshima oggi, nell’epoca in cui la parola “atomica” torna nei discorsi politici con una leggerezza inquietante? Quali sono le forme dell’oblio socialmente accettabili? E quante menzogne collettive servono per farci sentire innocenti?

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Sorace e Fazi scelgono di non mostrare mai l’orrore, ma di mostrarne gli effetti sulla coscienza. Eatherly vive perché non dimentica; il mondo sopravvive perché ha dimenticato.

Accanto alla potenza tematica e visiva, Atomica porta con sé alcune fragilità.                                    L’alternanza tra monologo filosofico e crisi emotiva costruisce una partitura complessa, ma a tratti l’incastro non regge. La sovrapposizione vocale non produce tensione, ma disgregazione, e indebolisce la forza dei dialoghi. Alcune sezioni scivolano in un’inerzia che rallenta il ritmo.

Ci sono momenti in cui la tensione tra Anders ed Eatherly, invece di accendersi, si annulla. È come se lo spettacolo avesse tra le mani una materia esplosiva  – il carteggio, Hiroshima, il processo farsa, la censura statunitense – ma non riuscisse sempre a farla detonare con la forza che promette.

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Come la bomba di Nagasaki, che esplose prima del punto stabilito mietendo meno vittime, anche qui l’impatto emotivo arriva in alcune scene e resta congelato in altre.

Atomica non è uno spettacolo facile. Non cerca l’empatia, non consola, non semplifica. È un’opera che chiede allo spettatore di entrare in un conflitto, non di assistervi. È un lavoro che ricorda che la storia non è passata, che la tecnologia non è neutra, che la colpa non è un capitolo archiviato.

A ottant’anni da Hiroshima, il teatro non può restituirci l’innocenza perduta, ma Muta Imago prova a  mostrarci le crepe da cui quella perdita continua a filtrare.

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