di Rock Reynolds
Erano passati quasi sei anni dal loro primo disco ufficiale, Love Me Do, ma l’intensità di quanto vissuto in quel breve arco temporale e una pressione mediatica senza precedenti persino tra le star più fulgide di Hollywood avevano tolto ai quattro ragazzi di Liverpool quell’aria sbarazzina che aveva bucato gli schermi ai loro esordi. I Beatles avevano perso l’innocenza, erano uomini adulti con tanto di famiglia, logorati da tournée massacranti e assediati dai fan. Per giunta, l’unità di intenti da tre moschettieri (più D’Artagnan che, secondo alcuni, sarebbe stato McCartney e, secondo altri, Lennon) stava per sfaldarsi.
Correva l’anno 1968 e i quattro erano reduci dall’esperienza del ritiro spirituale nell’ashram del Maharishi Yogi, in India. Si sarebbe dovuto trattare di un momento salvifico, volto a rinsaldare quell’unione assoluta che li caratterizzava da sempre e che si traduceva in uno degli ingredienti vincenti del loro sound, all’indomani della morte improvvisa, scioccante del loro manager Brian Epstein. Con il senno di poi, fu l’inizio della fine: a Ringo della spiritualità orientale non avrebbe potuto fregare di meno; John trovava l’atteggiamento sornione del Maharishi molto più materialistico di quanto il santone volesse dare a intendere; Paul, pragmatico come al solito, decise di prendere da quel viaggio ciò che gli avrebbe fatto più comodo; in sostanza, il solo George si immerse cuore e anima nella ricerca interiore.
Una cosa buona accadde, però: la vita nell’ashram diede a tutti e quattro la possibilità di guardarsi dentro e pure un sacco di tempo libero per sperimentare con la musica, affrontando territori in precedenza quasi inesplorati, come il perfezionamento del sitar per George e dello stile finger-picking sulla chitarra acustica per John e Paul, colpiti dalla perizia del cantautore Donovan, loro compagno di avventura in India.
Reduci da quel viaggio, i quattro decisero di entrare in sala di incisione, forti di un gran numero di abbozzi di canzoni. George Harrison non era più il ragazzino a cui John Lennon si rivolgeva con fare paternalistico e Paul McCartney senza eccessiva stima: George aveva scritto canzoni di pregio e non intendeva più sottostare ai dictat dei capi. L’ennesimo segnale di discontinuità. Ma non l’unico, a partire dall’insoddisfazione di George Martin, il produttore storico nonché loro mentore in sala di incisione, che avrebbe voluto selezionare solo i brani più convincenti e non disperderli in quello che sarebbe diventato l’unico album doppio dei Beatles, nonché il più venduto nella storia del pop.
Per la prima volta dalle mitiche session di Love Me Do, il primo, omonimo album, il clima nello studio di registrazione si rivelò immediatamente teso. L’aria pesante, secondo alcuni, può essere conduttiva di una promettente tensione creativa. Ma la realtà era che i quattro amici fraterni tanto amici iniziavano a non essere più, al punto che Ringo decise di abbandonare baracca e burattini nel bel mezzo delle sedute e fu sostituito da Paul: la batteria nei brani “Back in the U.S.S.R.” e “Dear Prudence” la suonò quest’ultimo.
Siccome, però, i Beatles erano i Beatles, il progetto partito sotto auspici non proprio ottimi divenne uno dei dischi più acclamati di sempre. The Beatles (questo il titolo ufficiale, anche se nessuno, nemmeno i superstiti Paul e Ringo, lo chiamano così) fu pubblicato il 22 novembre 1968 e schizzò al primo posto delle classifiche USA il 28 dicembre.
Parco fin dalla copertina, come a marcare un cambio di rotta rispetto al sontuoso Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dell’anno prima, il White Album (come divenne noto a tutti) uscì con una copertina interamente bianca e il titolo in rilievo, con tanto di poster con i testi e quattro splendide foto a colori all’interno. Per la prima volta, sulla copertina non c’erano i Beatles. Non cosa da poco.
Il White Album è il disco preferito dei non beatlesiani, forse l’unico loro album che gli appartenenti a tale categoria riescano (per quanto a fatica) a digerire. In effetti, la distanza da Sgt. Pepper’s, sul piano musicale e concettuale, è siderale.
Non che manchi la voglia di sperimentare, ma White Album è soprattutto una collezione di brani individuali, la cui paternità è più evidente che mai. La mancanza di organicità diventa il punto di forza. L’iniziale “Back in the U.S.S.R.” è un divertissement di Paul in salsa Chuck Berry, mentre la successiva “Dear Prudence”, che parte in stridente dissolvenza da quel rock’n’roll sfrenato, è una splendida, fosca melodia di John. “While My Guitar Gently Weeps”, con Eric Clapton alla chitarra elettrica, mostra di che pasta sia fatto il nuovo George. Ci sono piccoli capolavori istantanei come “Happiness Is a Warm Gun” (uno dei brani di John preferiti da Paul), la classicissima “Blackbird”, l’urlo disperato “Julia”, il proto-metal “Helter Skelter”, il rock’n’roll postmoderno “Revolution 1”, suonato dal vivo tuttora da innumerevoli band, e la sperimentale “Revolution 9” (un flusso di coscienza di John sotto l’influsso di Yoko, non particolarmente apprezzato dagli altre tre). È un gran disco.
