I cioccolatini di Olga di Galleria Toledo al TeatroBasilica

Laura Angiulli porta a Roma Roth, Praga e la prigione della diffidenza. Con Alessandra d'Elia e Antonio Marfella

Antonio Marfella, Alessandra d’Elia - I cioccolatini di Olga - di Laura Angiulli - Galleria Toledo - recensione di Alessia de Antoniis
Antonio Marfella, Alessandra d’Elia - I cioccolatini di Olga
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24 Novembre 2025 - 11.41


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di Alessia de Antoniis

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In scena al TeatroBasilica  I cioccolatini di Olga di Galleria Toledo, drammaturgia e regia di Laura Angiulli, è uno spettacolo che si ispira a L’orgia di Praga di Philip Roth. Un’opera che, come scrive la stessa Angiulli nelle note di regia, è apparentemente un’operina, che pulsa del desiderio d’appartenenza e condivisione, e che qui diventa il cuore di un viaggio dentro l’impossibilità dell’appartenenza.

L’azione è collocata nella Praga post ’68, dopo l’invasione sovietica. Un narratore americano, ebreo, sentimentale, viene spedito a Praga per recuperare un manoscritto: i racconti yiddish inediti del padre di Derek Kaminsky, scrittore ucciso da un proiettile nazista nel 1941. Il pretesto letterario è il grimaldello che apre le porte di un universo saturo di diffidenza: appartamenti sotto controllo, uffici del Ministero della Cultura, ristoranti dove perfino il tavolo d’angolo viene rifiutato perché “pieno di microspie”. “La regola è spargere la diffidenza per tenere in pugno la gente”.

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Antonio Marfella è chiamato a incarnare i personaggi maschili del racconto e spesso sostiene interi dialoghi da solo, passando da un ruolo all’altro senza soluzione di continuità. Il corpo diventa un dispositivo di montaggio: un braccio che si blocca, le dita che si irrigidiscono, il viso che si deforma, il respiro che cambia ritmo, e l’asse della scena si sposta da un personaggio all’altro. Il parco gestuale è asciutto, ma basta uno scarto per far emergere il narratore americano, Kaminsky, il portiere, il Ministro della Cultura.

Alessandra d’Elia è Olga, moglie di Derek e custode dei racconti. Figura vulcanica, sessualmente aggressiva e al tempo stesso inerme, vive in quella zona in cui il corpo è l’unico documento di espatrio possibile: entra nella stanza dell’americano proclamandosi “tua futura moglie”, pretende amore istantaneo, rivendica che in Cecoslovacchia “scopare è l’unica libertà che ci è rimasta”, trasformando la propria esposizione in gesto politico disperato. La d’Elia concentra in lei (e in Eva, attrice un tempo amatissima e poi cancellata) il malessere della Praga occupata: la sua voce sale di colpo, si incrina, scivola dal tono confidenziale al grido isterico, baratta il manoscritto e il proprio corpo con ostinazione, oscilla tra l’illusione di una fuga possibile e la consapevolezza di essere intrappolata. Tiene Olga sul crinale tra volgarità esibita e richiesta infantile di protezione, emblema di una popolazione che conserva le proprie storie in scatole precarie, pronte a essere confiscate da un momento all’altro.

La drammaturgia lavora su un’alternanza serrata di registri linguistici. Alla sintassi più sorvegliata del narratore si oppone l’esplosione verbale di Olga, fatta di ripetizioni, invettive. Il verbo “scopare”, ossessivamente rilanciato, diventa la cifra di una società ridotta al biologico: quando pensare e scrivere sono proibiti, resta il sesso come ultimo spazio non del tutto regolato.

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In questo paesaggio umano la messinscena di Laura Angiulli sceglie la via dell’essenzialità: una poltroncina, una chaise longue, un tappeto rosso. La scena di Rosario Squillace e le luci di Cesare Accetta, che ritagliano coni di visibilità lasciando il resto nel buio, compongono un dispositivo di corpi isolati, incorniciati, esposti come in un interrogatorio continuo.

La scelta di concentrare tanto peso sulla parola è insieme la forza e il limite del lavoro. Da un lato permette di restituire la stratificazione rothiana: il livello politico, quello autobiografico, quello meta-letterario. Dall’altro, il flusso verbale chiede allo spettatore una partecipazione attenta e vigile.

Resta la nettezza di uno sguardo che rifiuta la consolazione. I cioccolatini di Olga non è un “evergreen” sull’eroismo dei dissidenti, ma un dispositivo che mostra come tutti – profughi, ministri, intellettuali occidentali di passaggio – partecipino a un sistema di scambi tra dolore e capitale simbolico. Il fallimento finale – il manoscritto confiscato, lui cortesemente espulso, Olga lasciata indietro – rende evidente lo scarto tra l’idealismo romantico dell’intellettuale occidentale e la brutalità di un sistema che usa la diffidenza come infrastruttura del potere. La scatola di cioccolatini che contiene i racconti e che alla fine sparisce in un ufficio di polizia è il personaggio occulto della serata: oggetto carico di storie, che ci ricorda quanto facilmente memoria e letteratura possano essere sequestrate anche oggi, magari con i modi gentili di un passaporto restituito e un volo prenotato per riportarci a casa.

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Il cioccolatino più amaro, alla fine, è proprio questo: scoprire che i veri eroi del racconto non sono gli idealisti che scrivono, ma i realisti che si piegano, come il padre di Lovac, che attraversa indenne Masaryk, Hitler, Stalin, Dubček, cambiando idea a ogni svolta: è la parabola di un conformismo eretto a virtù.

È realizzare che il totalitarismo non è solo repressione poliziesca: è pedagogia della flessibilità. È chiedersi, uscendo dal teatro, da che parte avremmo saputo stare noi.

Il pubblico della prima ha seguito con attenzione visibile, restituendo alla fine un applauso che riconosceva la qualità del lavoro

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I cioccolatini di Olga
liberamente ispirato a L’orgia di Praga di Philip Roth
drammaturgia e regia: Laura Angiulli
con: Alessandra d’Elia, Antonio Marfella
scena: Rosario Squillace
disegno luci: Cesare Accetta
produzione: Galleria Toledo

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