parla ormai in tutta Europa (Germania compresa). Il primo è che,
sovrapponendosi alle debolezze strutturali della nostra economia, l’euro
si è rivelato una camicia di forza idonea solo a comprimere i salari,
peggiorare le condizioni di lavoro, tagliare la spesa per la protezione
sociale, soffocare la ricerca, gli investimenti e l’innovazione
tecnologica e, alla fine, rendere impossibile qualsiasi politica
progressista.
Risultato: otto anni di recessione, che hanno provocato la perdita di 
quasi 300 miliardi di Pil al 2014 rispetto alle previsioni del 2007; 25%
 di produzione industriale in meno, un mercato del lavoro di cui è 
difficile dire quale sia l’aspetto peggiore fra tre milioni di 
disoccupati, tre-quattro di precari e due o tre di occupati in nero. 
Grazie ai quali l’Italia detiene il primato dell’economia sommersa tra i
 Paesi sviluppati, pari al 27% del Pil e circa 200 miliardi di redditi 
non dichiarati. I costi economici e sociali dell’euro superano i 
vantaggi.
Il secondo motivo per uscire dall’euro è l’eccessivo ammontare del 
debito pubblico, il che rende di fatto impossibile per l’Italia far 
fronte agli oneri previsti dal cosiddetto Fiscal compact e a una delle 
clausole fondamentali dell’Unione economica e monetaria. Il Fiscal 
compact prevede infatti che in vent’anni dal 2016 il rapporto debito/ 
Pil, che si aggira oggi sul 138%, dovrebbe scendere al 60, limite 
obbligatorio per far parte dell’eurozona. In tale periodo detto rapporto
 dovrebbe quindi scendere di 78 punti, cioè 3,9 l’anno. In termini 
assoluti si dovrebbe passare dal rapporto 2200/1580 miliardi di oggi a 
948/1580 nel 2035 (da convertire nel rispettivo valore del ventesimo 
anno). Vi sono solo due modi di raggiungere tale risultato, e infinite 
combinazioni intermedie che però non lo cambiano: o il Pil cresce di 
oltre il 5% l’anno per un ventennio, o il debito pubblico scende di 
oltre 3 punti percentuali l’anno. Tenuto conto che le ipotesi più 
ottimistiche di crescita del Pil per i prossimi anni si collocano tra 
l’1 e il 2% l’anno, e che il servizio del debito — 95 miliardi nel 2015 —
 continuerà a ingoiare decine di miliardi l’anno, ambedue le ipotesi non
 sono concepibili. In altre parole è impossibile che l’Italia riesca a 
rispettare il Fiscal compact. L’Italia si ritrova così nella condizione 
degli Stati membri della Ue che attendono di entrare nell’eurozona 
perché debbono soddisfare alcune clausole previste dal trattato 
sull’Unione economica e monetaria. Come dire che l’Italia è tecnicamente
 già fuori dall’eurozona, poiché non è in condizione di soddisfare a una
 delle clausole chiave: un rapporto debito pubblico/Pil non superiore al
 60%. Tale situazione dovrebbe essere invocata per recedere 
dall’eurozona.
Non sono necessari sfracelli per arrivare a tanto. Basta far ricorso 
all’articolo 50 del Trattatto sull’Unione europea, comprendente le 
modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona il 1° gennaio 2009. Esso 
stabilisce che “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle 
proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione (paragrafo 1)”. Il
 paragrafo 2 precisa quali vie il procedimento di recesso deve seguire. 
Lo Stato che decide di recedere notifica l’intenzione al Consiglio 
europeo. L’Unione negozia e conclude un accordo sulle modalità del 
recesso. L’accordo è concluso dal Consiglio a nome dell’Unione.
Dalla lettura dell’art. 50 si possono trarre alcune considerazioni: a) 
la recessione avviene dopo un negoziato; b) il negoziato è condotto 
sotto l’autorità del Consiglio europeo, organo politico; c) è dato 
presumere che quando uno Stato notifica l’intenzione di recedere, 
determinate misure tecniche, tipo un blocco temporaneo all’esportazione 
di capitali dallo Stato recedente, siano già state predisposte in modo 
riservato.
Mentre l’art. 50 ha posto fine all’idea che la partecipazione all’Unione
 sia per sempre irrevocabile per vie legali, qualche dubbio sussiste 
sulla possibilità di recedere dalla Uem — la veste giuridica dell’euro —
 senza uscire dalla Ue, poiché l’articolo in questione menziona soltanto
 questa. Peraltro la letteratura giuridica ha ormai sciolto ogni dubbio:
 poiché il trattato sulla Uem è soltanto una parte della struttura 
giuridica della Ue — esistono Stati membri della Ue ma non dell’eurozona
 — è arduo negare il principio per cui uno Stato membro possa recedere 
dalla Uem ma non dalla Ue. Per cui il negoziato per l’uscita dall’euro 
dovrebbe aprirsi con la dichiarazione di voler restare nella Ue. I costi
 per la recessione dalla Ue sarebbero superiori ai costi di una sola 
uscita dall’eurozona. Uno Stato che uscisse oggi dall’Ue si troverebbe 
dinanzi ad altri 27 Stati, ciascuno dei quali potrebbe imporgli ogni 
sorta di restrizioni al commercio, oneri doganali, aumenti del prezzo di
 beni e servizi. L’impossibilità di accedere ai mercati Ue 
costringerebbe uno Stato ad affrontare costi di entità paurosa.
Resta da chiedersi dove stia il governo capace di condurre un negoziato 
per la recessione dell’Italia dall’eurozona in base all’art. 50 del 
Trattato sulla Ue. L’attuale, come quasi tutti i precedenti, è un 
esecutore dei dettati di Bruxelles, Francoforte, Berlino. Chiedergli di 
aprire un negoziato per uscire dall’euro non ha senso. Si può coltivare 
una speranza. Che si arrivi a nuove elezioni, dove ciò che significa 
recedere dall’euro in termini di ritorno della politica a temi quali la 
piena occupazione, la politica industriale, la difesa dello stato 
sociale, una società meno disuguale, sia al centro del programma 
elettorale di qualche emergente formazione politica. Prima di cedere 
alla disperazione, bisogna pur credere di poter fare qualcosa. 
sembra opportuno precisare che il Professor Gallino assumendo la
posizione dell’uscita diretta dall’euro si è distaccato dalla proposta
della Moneta Fiscale che aveva condiviso con me, Biagio Bossone, Marco
Cattaneo e Enrico Grazzini. Luciano Gallino infatti è uno dei promotori
dell’appello e ha scritto la prefazione del libro “Per una moneta
fiscale gratutita” pubblicato da Micromega. La moneta fiscale ha senso
se viene emessa all’interno dell’euro, ma se si dovesse uscire non ci
sarebbe bisogno dei CCF perchè ci sarebbe la nuova moneta nazionale.
La proposta di Moneta Fiscale può rappresentare
il Piano B sia delle forze che sperano di cambiare l’Europa in senso
progressista sia delle forze anti-euro. In tal modo è possibile attuare
una politica espansiva dentro il quadro dell’euro senza dipendere dalle
decisioni europee ed evitando di imboccare la strada dell’uscita diretta
dall’euro che potrebbe rivelarsi rischiosa (fughe di capitali e corsa
agli sportelli bancari), lunga (probabilmente andrebbe indetto un
referendum da sottoporre al giudizio dei cittadini) e molto incerta (non
è affatto sicuro che la maggioranza degli italiani abbia l’intenzione
di uscire dall’euro).
Con
la Moneta Fiscale invece sarebbe possibile lanciare in tempi abbastanza
rapidi e in modo autonomo una politica volta a produrre una reale
ripresa economica assicurando la stabilità finanziaria ed eventualmente a
creare anche i presupposti per un’uscita per quanto possibile “morbida”
dall’Eurosistema.
L’APPELLO:[u][i]
[url”Per una  moneta fiscale gratuita – Come uscire dall’austerità senza spaccare l’euro.”]http://www.syloslabini.info/online/risolviamo-la-crisi-dellitalia-adesso/[/url][/i][/u]
