di Dario Spagnuolo
Mentre la manovra finanziaria è in dirittura d’arrivo, non a caso il Presidente della Repubblica richiama l’attenzione all’art. 36 della Costituzione: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
Nel 2024, la spesa media delle famiglie italiane si è attestata a € 2.775 mensili. Quanti stipendi arrivano a questa cifra in Italia? Pochi, la stragrande maggioranza si ferma molto prima e intravede a stento i 2.000 euro. Secondo l’Osservatorio JobPricing nel 2025 la retribuzione media lorda annua di un lavoratore è di € 30.838 per un netto in busta paga di € 1.700 – 1.850. L’80% dei lavoratori non supererebbe i € 35.000 e, portando la RAL (retribuzione annua lorda) a 40.000 ci rientrerebbero il 92% dei lavoratori con appena un 8% di privilegiati.
Secondo la CGIL (che ha elaborato i dati INPS 2023), il 75,4% dei lavoratori non raggiungerebbe i 30.000 euro di RAL, con un salario netto ben al di sotto dei € 2.000 mensili. In termini di valore reale, l’Italia inoltre ha subito una perdita del potere di acquisto degli stipendi, la cui crescita è discontinua e comunque inferiore all’inflazione. D’altronde, l’Italia è tra i pochi paesi comunitari a non avere previsto il salario minimo, già introdotto da 21 paesi dell’Unione europea. Tale provvedimento, infatti, farebbe chiarezza nella giungla contrattuale vigente.
E’ evidente, insomma, che il valore della spesa media sia raggiunto solo in virtù di coloro che guadagnano stipendi altissimi e di coloro che evadono le tasse, gli unici soggetti che possono permettersi di spendere molto più della media.
Se una famiglia è monoreddito, invece, si colloca in prossimità della soglia di povertà e ben lontana dalla media, senza considerare che un unico percettore di reddito significa camminare sull’orlo del baratro qualora, per qualunque motivo, tale entrata venga meno.
L’Italia è sempre più il paese delle diseguaglianze e il salario è il grande protagonista. Oltre al gender gap, che continua a rimanere una questione irrisolta, vere gabbie salariali dividono le regioni del Nord da quelle del Sud, con un differenziale che supera i € 10.000. Secondo l’Istat (Indagine su condizioni di vita e reddito delle famiglie 2023-2024), il reddito netto medio familiare nel Nord-Ovest si attesta a € 41.811, nel Nord-Est a € 41.634, nel Centro a € 38.377 mentre nel Sud e nelle Isole si ferma a € 30.677: solo il Sud e le Isole, insomma, si attestano al di sotto della media italiana di € 37.511. Nel Mezzogiorno, inoltre, circa un terzo delle famiglie è a rischio per reddito troppo basse e/o precario.
Certo il basso livello dei salari frena anche l’innalzamento del prezzo dei beni di consumo, nel Mezzogiorno però, bisogna pagare il pesante scotto dell’assenza di servizi. Senza asili nido e tempo pieno, per le donne con figli restare a casa diviene una necessità. In molti casi la nascita di un figlio, nonostante il consistente aumento delle spese, significa per le donne lasciare il lavoro. Diversamente, bisogna mettere in conto € 500 o € 600 euro mensili solo per trovare chi accudisca il bambino mentre la madre è al lavoro. Altro costo abnorme riguarda le spese sanitarie. In Campania, ad esempio, il numero di strutture pubbliche è stato pesantemente tagliato, nonostante sugli ospedali campani gravitino anche molti abitanti di Calabria e Basilicata. Le numerose strutture private convenzionate, invece, sanno in anticipo, per ciascun mese, quanto sarà loro riconosciuto dalla Regione. Il risultato, è che dopo i primi 7, 10 giorni del mese non si erogano più prestazioni in convenzione perché il plafond è troppo misero. Insomma, abitare in Campania significa avere solo 110 giorni all’anno di assistenza sanitaria pubblica. Non a caso, chi vive in Campania ha mediamente un’aspettativa di vita inferiore di oltre 2 anni rispetto al resto dell’Italia.
C’è poi una enorme disparità tra i lavoratori precari e quelli a tempo indeterminato, con i primi che ristagnano nelle fasce di reddito più basse, ovvero in condizioni di povertà relativa o assoluta nonostante l’impiego.
C’è ancora da segnalare la condizione dei lavoratori migranti che, pur continuando a lavorare nei settori di impiego più rischiosi, con tassi di infortuni altissimi, percepiscono salari nettamente inferiori agli italiani. È una forma di cinico razzismo, che si traduce anche in un mercato del lavoro duale, in cui gli imprenditori puntano sui lavoratori stranieri per contenere i costi e scoraggiare le rivendicazioni salariali degli italiani.
A fronte di questa situazione, una manovra pubblica asfittica (18,7 Mld di euro) come quella attuale avrà un impatto nullo o negativo. Una ingente quota, come noto, sarà destinata al riarmo, trasformandosi automaticamente in una spesa inutile ai cittadini. Le risorse destinate al rinnovo dei contratti degli impiegati statali sono insufficienti e non riguardano tutti i settori. Si segnalano inoltre tagli ai trasporti, mentre nulla è stato pensato per contenere il dissesto idrogeologico. È facile prevedere, come accaduto negli ultimi anni, che saranno varate manovre correttive dopo pochi mesi del nuovo anno.
A fronte di questo scenario preoccupante, il governo Meloni è stabile ed anzi sta scalando le classifiche della durata. Al momento è preceduto solo da due governi, entrambi a guida Berlusconi (Berlusconi II e IV). Negli ultimi 30 anni, insomma, non solo la destra è stata al potere per un periodo maggiore della sinistra, ma ha anche beneficiato di una maggiore stabilità. Ciò nonostante, che sia all’opposizione o che sia al governo, la linea politica è sempre la stessa: il vittimismo. La colpa è sempre di qualcun altro, si tratti di un avversario politico, di un giornalista o “degli immigrati”.
Nel frattempo, l’assenza di investimenti concreti, il ricorso a semplici iniezioni di capitale o l’erogazione di bonus e prebende non potrà modificare il declino del paese che, secondo le previsioni, è destinato a vedere un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita. I dati, tuttavia, non sembrano argomenti di analisi o di riflessione da parte dei ministri e il monito di Mattarella rischia di rimanere del tutto inascoltato.–
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