Dagli “embedded” agli influencer prezzolati: la propaganda israeliana su Gaza segna il punto più basso dell’informazione

Non so se sia cominciato tutto con la Seconda guerra del Golfo, nel 2003. Di certo, però, è stato allora che si è iniziato a usare con crescente frequenza l’espressione “embedded journalist”

Dagli “embedded” agli influencer prezzolati: la propaganda israeliana su Gaza segna il punto più basso dell’informazione
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Seba Pezzani Modifica articolo

26 Agosto 2025 - 00.11


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Non so se sia cominciato tutto con la Seconda guerra del Golfo, nel 2003. Di certo, però, è stato allora che si è iniziato a usare con crescente frequenza l’espressione “embedded journalist” per indicare, come da vocabolario della lingua inglese, un giornalista “aggregato a un reparto militare nel corso di un conflitto”.

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Ricordo la gioia quasi goliardica di certe telecronache dall’Iraq fatte dalle voci inconfondibili delle varie Monica Maggioni, Silvia Kramar e Giovanna Botteri che sembravano voler trasformare una guerra in un teatrino dell’assurdo. Non avevo ancora pensato a una realtà talmente evidente da essermi sfuggita davanti al naso: “embedded” ha la stessa radice di “bed”, letto, dunque indica un giornalista che va a letto con le forze militari di cui dovrebbe analizzare lucidamente comportamento e azioni. Eventualmente, stigmatizzarli. Ad aprirmi gli occhi fu il compianto Robert Fisk, un’autorità tra gli inviati di guerra, sempre caustico nei confronti delle telecronache effettuate dal terrazzo di un hotel di Baghdad e ancor più da una tenda di un accampamento militare, dove a suggerire il pezzo era un solerte addetto stampa in mimetica.

Bei tempi, verrebbe da dire, dopo aver assistito all’ultima, oscena trovata dell’IDF: far approdare a Gaza una decina di “influencer” americani, pagandoli (non si sa quanto profumatamente) in cambio di discorsi imbonitori sull’inesistenza di una crisi umanitaria nella Striscia, sulle responsabilità palestinesi nelle difficoltà di approvvigionamento e via discorrendo. Sembra di tornare ai tempi dei documentari dell’ufficio del turismo del Sudafrica dell’apartheid – non a caso – o a qualche proclama di autoesaltazione sovietico. A un tiritera del nostrano Minculpop – che poi  la prima volta che l’ho sentito nominare, da ragazzino, pensavo fosse una trovata di Lando o Sukia – o a una sparata di Trump.

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Già, Trump. Il suo zampino ce lo vedo. Magari, invece, è tutta farina del sacco di Israele. Chiamare IDF – Israel Defense Forces, forze difensive israeliane – un esercito che non fa altro che attaccare giorno dopo giorno mi pare una presa per i fondelli planetaria. Mai che una testata nazionale seria sottolinei il paradosso della cosa.

C’erano una volta i troll: io ne ho “conosciuto” uno su Facebook. Un tizio mi ha chiesto l’amicizia e io, come faccio d’abitudine, gliel’ho data. Dopo qualche giorno ha iniziato a inserire un commento soft qua e uno là sui miei post relativi alla situazione in Medio Oriente, per poi passare a frasi più forti se non addirittura offensive. L’ho bannato.

Poi c’è stata la storiaccia delle università americane sulle quali è calata la mannaia del ricatto delle lobby ebree. Trump ha colto la palla al balzo e ne ha fatto uno strumento di politica interna, per mettere a tacere il dissenso.

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Ma la pagliacciata degli influencer supera ogni livello farsesco. Il grottesco non è più tale, sbiadendo in una tragicommedia per la quale non sarebbe stato adeguato nemmeno il Giacinto Mazzatella di Brutti, sporchi e cattivi interpretato da Nino Manfredi. Dieci pagliacci prezzolati, privi della benché minima dignità, che si prestano a un gioco pietoso. Ce n’è uno, di colore, che sfoggia un sorriso a 36 denti per tranquillizzare il mondo o, meglio, la schiera numerosa di follower decerebrati che pare abbia in USA, sul fatto che a Gaza non ci sono problemi oppure che, se ci sono, la loro portata è decisamente inferiore a quella che la stampa internazionale tendenziosa e poco timorata di Dio vuol farci credere. E guardatela questa Gaza! Non è una bellezza? sembra dire. Fateci un pensierino. Fra un po’ Donald la trasformerà in una nuova Costa Azzurra: tanto vale approfittarne subito e investire qualche dollaro. La sua pelle ambrata – una nostra vecchia conoscenza avrebbe detto “abbronzata” – ci ricorda che stupidità, narcisismo e mancanza di senso della storia sono mali endemici all’uomo e non conoscono confini. D’altra parte, nella comunità afroamericana non manca chi ha votato per Donald Trump nelle elezioni dello scorso novembre, nonostante l’attuale presidente di cose poco simpatiche sui neri ne abbia dette diverse e malgrado l’atteggiamento ingiustificabile da lui mostrato verso il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa durante una recente visita ufficiale alla Casa Bianca, occasione in cui ha (s)parlato di “genocidio bianco” nel suo paese a opera di bande di tagliagole neri che avrebbero sgozzato con gioia dei poveri contadini bianchi.

Ma torniamo agli influencer, il peggio che si sia visto finora a livello di propaganda in Medio Oriente, un tentativo farsesco di gettare altro fumo negli occhi del mondo “cattivo”, una cosa ridicola se non fosse tragica. Soggetti invitati a visitare Israele per “raccontare la verità”, non le fandonie della stampa internazionale antisemita. La storia sembra non insegnare veramente nulla. La memoria di certi discendenti degli schiavi è selettiva come quella dei discendenti delle vittime della Shoah.

L’amico giornalista Riccardo Michelucci – spesso inviato in scenari di guerra – mi ha giustamente bacchettato quando, esprimendogli il raccapriccio quasi divertito di fronte all’insulsaggine dello spettacolino fornito da tali influencer, ne ho minimizzato la portata. «Purtroppo, questa gente ha milioni di follower e sono in tanti ad abboccare. Sono giunto alla conclusione» dice amaramente, «che a non capire niente siano in molti e che in molti credano a qualsiasi sciocchezza gli venga propinata dagli imbonitori di turno. Ecco spiegato come un influencer che vanta un milione di follower e un giorno parla di cucina e quello dopo di genocidio finisce per avere maggior credibilità di Francesca Albanese».

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Nel frattempo, piovono bombe su tendopoli, ospedali, ambulanze e automezzi della stampa. Ma a Gaza di problemi non ce ne sono e, comunque, non è l’IDF a crearli.

Temo che chi pensava che i giornalisti che andavano a letto con i militari – giornalisti “embedded” suona meglio? – siano stati il punto più basso mai raggiunto nella storia della propaganda di guerra ora debba tarare nuovamente la bilancia. La paccottiglia pseudogiornalistica – forse, sarebbe pure il caso di riqualificare il mestiere del giornalista e distinguerlo da quello di chi pensa di poter scrivere ad capocchiam tutto ciò che gli passa per la testa solo perché può farlo e perché in rete ha uno stuolo di “follower”, senza seguire dunque alcun criterio di verifica – che i tristi sketch da avanspettacolo ci hanno ammannito in questi giorni sono l’ennesimo record di bruttura. Prestarsi a questo giochino di infimo livello etico in luoghi che hanno visto morire ufficialmente più di sessantamila persone in meno di due anni grida vendetta.

Così come è scandalosa la timidezza con cui buona parte degli organi di informazione italiani tratta la materia. Sull’ignavia del nostro governo non stendo un velo pietoso solo perché di certo ce ne sarà tristemente per coprire il cadavere dell’ennesima vittima innocente, probabilmente minorenne.

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E meno male che, almeno, stavolta i Ferragnez non c’entrano.

Il de profundis dell’umanità è già stato intonato anche senza di loro.Caro

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