A leggere la sentenza con cui i magistrati vaticani hanno rinviato a giudizio l’ex aiutante di camera di papa Benedetto XVI viene naturale porsi una domanda: ma in mano a chi avevano messo il papa? “Tra i miei interessi personali c’è sempre stata l’intelligence, che ritengo propria dello Spirito Santo, del quale mi sentivo un po’ un infiltrato”. Così ha detto ai magistrati il maggiordomo rinviato a giudizio. Ed era tanto appassionato di intelligence da farsi trovare nei cassetti, stracolmi di carte top secret, anche una pepita d’oro, un assegno da centomila euro intestato al papa e una preziosa cinquecentina.
Dunque per il Vaticano, convinto che il papa fosse malinformato, il Gabriele cercò su Internet i contatti di Nuzzi, giornalista alla cui buonafede l’esperto di intelligence credeva da quando aveva letto “Vaticano Spa”. Trovatolo, evidentemente tramite centralino, è entrato in contato con lui, lo ha riempito di carte, e poi se le è conservate tutte dentro casa, quelle e altre. E le ha anche fatte vedere al suo padre spirituale, che però spaventatissimo le avrebbe bruciate, senza volerne sapere di più.
Chi lo ha messo nell’appartamento papale era ovviamente inconsapevole di tutto ciò. Non altrettanto, forse, un tecnico informatico della segreteria di stato vaticana, trovato in possesso di una busta chiusa, risalente a un paio d’anni fa, indirizzata al Gabriele. Incapace di spiegare come e perché si fosse tenuto per due anni quel plico nel cassetto è stato rinviato a giudizio pure lui, ma per favoreggiamento, non per concorso.
Gabriele ha confessato di essere lui il “mister x” che parlò in tv con Nuzzi. In quell’intervista disse che c’erano una ventina di persone d’accordo con lui nella città leonina: “chi sarebbero?” Non si sa, questa domanda i magistrati infatti non l’hanno formulata durante questi mesi di interrogatori. Quell’intervista con il sonoro distorto (per coprire l’identità dell’intervistato) per loro non è “affidabile”.