Ci vuole tempo, dedizione, perseveranza per accettare il proprio corpo e adattarsi alla sua fragilità. Un percorso incerto e avventuroso che riguarda tutti noi ma che, se ti capita di avere una malattia rara responsabile di rendere la pelle fragile come la seta, le articolazioni morbide e soggette a lussazioni, l’organismo incline alla stanchezza cronica, si arricchisce di nuovi e più intensi significati. È ciò che accade all’artista e performer 33enne fiorentina, Gioia Di Biagio, che ha scelto di raccontare la sua vita con la sindrome di Ehlers-Danlos nel volume autobiografico “Come oro nelle crepe. Così ho imparato a rendere preziose le mie cicatrici” (Mondadori). Un libro catartico che ripercorre le tappe fondamentali di un viaggio interiore dalla negazione all’accettazione, fino alla scoperta del valore della fragilità. E che alla fine trova nell’arte giapponese del kintsugi la metafora ideale: rimettere a posto i pezzi della propria vita attraverso l’oro, così come questa antica tecnica fa con le porcellane rotte. Gioia Di Biagio racconta la sua storia, in un’intevista, nel numero di ottobre di Superabile Inail, la rivista sui temi della disabilità pubblicata dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro consultabile anche online.
Gioia, lei ha deciso di raccontare la storia della sua vita attraverso quella delle sue cicatrici. Da dove nasce questa scelta?
Le cicatrici sono la parte più visibile della sindrome di Elhers-Danlos, perché ci sono anche tanti dolori che però si possono raccontare ma non condividere pienamente. A un certo punto ho deciso di non vergognarmi più delle mie cicatrici e di vederle come “tatuaggi di vita”, perché è come se avessi scritto un libro sul mio corpo: ogni cicatrice ha un nome, una data e una storia.
Quali raccontano meglio la sua vita?
La cicatrice più grande è quella che mi provocò una baby-sitter all’età di due anni: ero una bambina microscopica e lei, nel correre a prendere mia sorella che scendeva dall’autobus, inciampò su di me, schiacciandomi contro un gradino. Mi è rimasta un grande cicatrice sul polpaccio che ho chiamato Italia, visto che ha la forma dello Stivale. Poi ci sono le cicatrici sul viso, perché da piccola cadendo non mettevo le mani avanti. Si trattava sempre di tranquilli giochi di infanzia che però, uno dopo l’altro, ti segnano come una goccia cinese. Detta così, sembra un modo per coltivare la memoria e non sperperare i ricordi. Sono io che ho scelto di vedere le cose in questo modo. Per porre un segno indelebile sul proprio corpo, alcuni si fanno un tatuaggio; io ho la mia vita tatuata addosso.
Il volume racconta un percorso che va dal nascondere al mostrare. Da dove prende le mosse questo coraggio?
Si tratta di un percorso costante di accettazione. Già da bambina, se i miei genitori mi impedivano di fare qualcosa non ne facevo un problema, mi focalizzavo su altro. Magari disegnavo o creavo dei mondi fantastici, ma non piangevo perché mi veniva impedito di correre per non farmi male. La cosa più difficile da raccontare è stata però l’adolescenza, perché ho dovuto parlare anche degli amori. Scoprirsi attraverso gli occhi di una persona che ti guarda con occhi amabili ti fa cambiare il punto di vista e ti aiuta a focalizzarti sulle cose più belle.
Che importanza ha la sindrome di ElhersDanlos nella sua vita?
Mi ci identifico perché ci sono nata: a volte dico che non potrei prestare il mio corpo a nessuno, perché nessuno saprebbe come trattarlo. Ma non mi piace piangermi addosso. La malattia mi insegna tanto, ma se non ci fosse non mi mancherebbe.
Lei si chiama Gioia come sua madre. E sua madre le ha dato questo nome perché le ha portato fortuna. Ha portato fortuna anche a lei?
Per me è un nome bellissimo, ma anche uno stile di vita, una missione. È un nome che diventa subito il tuo biglietto da visita. Io sono gioia ed è quello che voglio essere. Il mio nome me lo ricorda in ogni istante.
Lei e sua sorella avete perso entrambi i genitori molto giovani. Come è cambiato il rapporto tra voi?
Se siamo molto unite non è solo perché siamo sorelle e ci vogliamo bene, ma anche perché abbiamo fatto squadra per superare le difficoltà e siamo diventate forti sorreggendoci l’un l’altra. Ho raccontato questa parte della mia vita attraverso la metafora del sole e della luna. Il sole rappresenta la parte più esteriore, come le cicatrici, ma poi c’è la luna che indica un dolore più profondo e difficile. Non si possono mettere a confronto la rottura di un’arteria e la perdita di un genitore, ma il dolore – che sia più interiore o più esteriore – richiede lo stesso insistente lavoro di accettazione.
Che significato ha avuto per lei scrivere un libro?
La proposta è arrivata nel momento in cui potevo finalmente tirare un sospiro di sollievo perché la battaglia, almeno quella per la sopravvivenza, era finita. Ripercorrere la mia vita è stata un’operazione molto intensa, che mi ha fatto tanto bene. Sto ricevendo numerosi messaggi da parte di persone che hanno letto il libro e hanno capito il messaggio che speravo di dare: cadere e rialzarsi, cadere e rialzarsi, cadere e rialzarsi ancora.
Da dove nasce il titolo?
Mettere l’oro nelle crepe significa ripercorrere le mie rotture, come nell’antica arte giapponese del kintsugi che ripara le porcellane andate in frantumi, rendendole ancora più uniche e preziose. Tutto è cominciato quando mia sorella ha fatto cadere la statuetta della piccola sposa di ceramica, che rappresentava il mio matrimonio. Pensando a come rimediare, si è ricordata di aver letto da poco un articolo sul kintsugi. È lì che ho scoperto l’esistenza di questa tecnica: la notte non sono riuscita a dormire, perché pensavo che anche io potevo ricucire le mie ferite interne ed esterne con l’oro. Da qui è nata anche una performance, che sto portando in giro in queste settimane.