La linea di difesa del fascismo italiano, ancora timida ma probabilmente destinata a crescere, è trincerarsi dietro la morte di Carlo Giuliani per giustificare quella di Daniele Belardinelli, capo ultras di estrema destra morto durante gli scontri di Inter Napoli.
Carlo Giuliani (passato per martire) stai tranquillo che se ,non cercava di tirare un estintore al carabiniere, non moriva
— Giuseppe (@GiUsEpPeCR7848) December 27, 2018
Giuliani è morto in circostanze sì controverse ma comunque nel mezzo di una manifestazione che ricordiamo tutti come si è risolta, Belardinelli era un criminale che aveva organizzato un blitz militare razzista contro i tifosi del Napoli. Non può essere la stessa cosa. E se la discrimine è quel -presunto- lancio dell’estintore contro la camionetta della polizia che ha portato all’uccisione di Giuliani, Belardinelli non può contare sullo stesso beneficio del dubbio: lui era lì esattamente per fare quello che ha fatto per tutta la vita, esercitare quello che lui e i suoi compari pensano sia un diritto alla violenza.
La retorica fascista del guardare a quello che fanno gli altri e giustificare le loro azioni è un copione vecchio. Ciò che sfugge a chi in queste ore sta tentando l’impresa di difendere Belardinelli è che una cattiva azione degli altri non ne giustifica una propria. Belardinelli verrà ricordato come quello che era, un ultras fascista e picchiatore. E sulla lapide di Giuliani è scritto ‘ragazzo’, perché è quello che era. E sull’aula di Montecitorio dedicata alla sua memoria, quello di Giuliani è un nome che va al di là della persona fisica: viene ricordata una delle pagine più nere della storia d’Italia recente. La morte di Belardinelli, invece, è simbolo di un’Italia becera che va estirpata alla radice. Di cui, ed è questa la differenza fondamentale, Belardinelli era causa, non sintomo.