Respinge ogni paragone con Saigon il segretario di Stato americano, Antony Blinken, e assicura che gli obiettivi della guerra in Afghanistan “sono stati raggiunti”.
E dunque l’ignominiosa quanto rapida fuga da Kabul per il capo della diplomazia Usa non è una “nuova Saigon” ma il rientro da vincitori. Che sia una narrazione alquanto ardita è chiaro a tutti, e per averne conto basterebbe allungare un orecchio nelle segrete stanze del Pentagono e registrare l’insoddisfazione, per usare un eufemismo, dei vertici militari statunitensi che avevano provato a spiegare ai vari inquilini della Casa Bianca succedutisi nell’ultimo decennio e più (Barack Obama, Donald Trump e ora Joe Biden) che andarsene dal Grande Medio Oriente senza uno straccio di strategia politica e militare per il dopo, era un azzardo che si rischiava di pagar caro. E così è stato. Prima in Iraq, poi in Siria e ora in Afghanistan. Quanto agli obiettivi “raggiunti”, verrebbe da dire all’esimio segretario di Stato: ma di cosa sta parlando?
Cronostoria di un disastro
Il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan coincide col ventesimo anniversario di quella che è stata la più lunga campagna delle forze armate americane nel dopoguerra. Risale al 7 ottobre 2001 l’inizio dell’operazione ‘Enduring Freedom’, quando, in risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre, gli Usa attaccarono i talebani in Afghanistan accusandoli di fornire copertura ad al-Qaeda.
I risultati sul terreno sembrarono arrivare in fretta. Dopo i primi attacchi aerei sulle postazioni talebane, le truppe occidentali e i loro alleati afghani conquistarono una dopo l’altra le roccaforti del regime, che capitolò il 9 dicembre 2001 con la resa di Kandahar e la celebre fuga in motocicletta del leader talebano, il Mullah Omar.
Poco prima anche il capo di al-Qaeda, Osama bin Laden, aveva lasciato il suo nascondiglio sotterraneo di Tora Bora e un governo di transizione era stato installato.
Fu però solo l’inizio di un logorante e difficilissimo tentativo di stabilizzare una nazione dove i talebani continuavano a controllare vaste aree e milizie fedeli ad al-Qaeda non cessavano di seminare terrore.
L’8 agosto 2003 iniziò la missione della Nato, dopo che l’allora capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, aveva definito conclusa la fase dei “combattimenti su larga scala”. Mentre il Paese tentava una faticosa ricostruzione, Bin Laden continuò a farsi vivo con messaggi diffusi da località ignote e la violenza riesplose in tutto il suo furore nel 2006, anno segnato da centinaia di attentati suicidi e attacchi con esplosivi, nel complesso il quintuplo del 2005. La coalizione alleata iniziò a mostrare crepe, con alcuni Stati che smisero di nascondere il desiderio di tirarsi fuori. Il consenso dei talebani intanto prosperava sul numero di vittime civili causato dalle operazioni occidentali. Nel 2009 il nuovo inquilino della Casa Bianca, Barack Obama, non potè che promettere un impegno sempre più risoluto in Afghanistan, annunciando l’invio di altri 17 mila soldati da aggiungere ai 37 mila già presenti. A fine anno i militari statunitensi dispiegati nella nazione diventarono 68 mila. E Obama fu costretto ad annunciare l’invio di altri 30 mila uomini, un’escalation resa necessaria da un’insorgenza talebana ormai fuori controllo. Dopo il vertice Nato del novembre 2010 che aveva fissato per il 2014 la cessione del controllo del Paese al governo di Kabul, la svolta arrivò nel maggio 2011 con l’uccisione di Bin Laden. Obama si impegnò a ritirare le 30 mila truppe aggiuntive e a Washington il dibattito iniziò a concentrarsi sulla fine della missione. La situazione era però così instabile che sarebbero passati altri tre anni prima che il presidente Usa stilasse un calendario per il ritiro del grosso delle truppe. Il 1° gennaio 2015 l’operazione “Enduring Freedom” fu rimpiazzata dall’operazione “Freedom’s Sentinel”, con l’attività antiterrorismo e il sostegno e l’addestramento delle forze locali quali obiettivi principali. Quando, il 20 gennaio 2017, Donald Trump giurò da presidente il ritiro era ormai in larga parte concluso. Gli uomini sul campo erano scesi a 9 mila, accompagnati da un numero analogo di contractor. La ripresa degli attacchi suicidi spinse però il nuovo presidente a valutare un nuovo aumento degli effettivi, sulla base delle condizioni sul terreno. Nel gennaio 2018 i talebani lanciarono un’offensiva che causò la morte di 115 persone nella capitale. Trump decise di concentrarsi sul prosciugamento delle risorse finanziarie delle milizie, distruggendo le coltivazioni di oppio e tagliando l’assistenza militare al Pakistan, accusato di sostenere gli estremisti. I talebani accettarono così di sedersi al tavolo della pace. Le storiche trattative iniziarono a Doha nel febbraio 2019 e sono ancora in corso, tra numerose difficoltà e una recrudescenza delle violenze nel Paese e l’avanzata degli ‘studenti coranici’ dalle campagne alle città.
La campagna in Afghanistan è costata, nel complesso, 785 miliardi di dollari agli Stati Uniti, secondo i dati diffusi dal Pentagono: 587,7 miliardi per l’operazione “Enduring Freedom” e 197,3 miliardi per “Freedom’s Sentinel”.
La sfida del Daesh
Oggi in Afghanistan operano una costellazione di gruppi jihadisti, come il Network Haqqani, manovrato dai Servizi pachistani, e lo Stato islamico, che ha cellule nella capitale e controlla una piccola fetta di territorio al confine con il Pakistan. L’Afghanistan non è l’Iraq o la Siria, dove gli affiliati all’Isis combattono i curdi, i cristiani e gli sciiti. Qui il potere è conteso ad altri sunniti, i Talebani, e più che per conquistare nuovi territori al “califfato”, si combatte per assicurarsi il controllo delle rotte del commercio dei narcotici. La “fabbrica” talebana di oppiacei mantiene salda la prima posizione mondiale, infatti l’eroina afghana raggiunge quasi tutto il globo. Due dati particolarmente indicativi: copre il fabbisogno del 90% del Canada e dell’85% circa delle richieste mondiali. La produzione e gestione del traffico di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani. Un traffico enorme, fortemente consolidato nella sua catena di produzione-vendita-incasso di milioni di dollari di profitti. Il prodotto viaggia sfruttando tutti i mezzi di trasporto: le rotte aeree e marittime permettono all’eroina afghana di giungere ovunque (eccetto il Sud America, qui vi sono i cartelli narcos che hanno il ‘loro’ prodotto). Le vie terrestri coinvolgono pesantemente Iran e Pakistan, costretti ad impiegare sempre più risorse per contrastare questi flussi. Lo Stato islamico è entrato in questa partita. La provincia di Nangarhar, nella parte orientale del Paese, al confine con il Pakistan, e ora è in buona parte occupata dall’Isis. L’invasione è cominciata nell’estate del 2014, quando dal confine sono arrivati un centinaio di talebani pakistani che, dopo essere scappati dall’esercito, si sono uniti a una fazione di talebani afghani.
Dopo venti anni di guerra, lo Stato afghano appare oggi una entità fallita. Venti anni di guerra, ovvero oltre 140 mila morti, tra cui almeno 26 mila civili. A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati Nato (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri. Una guerra costata 900 miliardi di dollari, 7,5 per l’Italia. Afghanistan, 2001-2021: storia di un fallimento. Militare e politico. Perché la Nato non è riuscita né a sconfiggere i talebani, né a riportare la pace né a ricostruire un esercito in grado di contrastarli.
Sul terreno si assiste ad una competizione per la leadership del terrore tra l’Isis, che sta arruolando i Pashtun, e al Qaeda 2.0. Una concorrenza che non oscura il dato di realtà: l’idea del “califfato” prende sempre più piede, e territori, in Afghanistan. E il “futuro” assomiglia sempre più a un ritorno alla situazione antecedente l’intervento militare dell’ottobre 2001: un Paese-santuario dell’islam radicale armato.
Il “male minore”
E così, nella logica delle alleanze variabili che connota, in politica estera, l’agire americano (prima e dopo Trump) i talebani possono diventare il “male minore” con cui venire a patti, come sta accadendo in Siria con Bashar al-Assad. Resta il fatto, incontestabile, che dall’avvio della “guerra al terrorismo” qaedista, nell’ottobre 2001, l’Afghanistan è un Paese che non sa cosa sia la pacificazione, dove a prosperare sono solo i traffici di armi e di droga. Un Paese dove imperano milizie jihadiste, “signori della guerra” e califfi eterodiretti; un Paese dove nessuno può dirsi al sicuro. Per il giornalista francese Jean-Pierre Perrin, autore del libro Le djihad contre le rêve d’Alexandre, una storia dell’Afghanistan dal 330 a.C. ai giorni nostri, gli occidentali hanno già perso: “I Paesi occidentali non vogliono riconoscere questa umiliante sconfitta. E ancora meno sono disposti ad accettare che sia stata inflitta loro da bande di irregolari male armati, male addestrati, poco equipaggiati e dieci volte meno numerosi. Questa sconfitta ci riporta ai fallimenti degli invasori precedenti: gli inglesi in tre occasioni – e la prima volta risaliva a qualche anno dopo la vittoria su Napoleone – i russi e prima di loro altri eserciti stranieri meno importanti come gli iraniani. Del resto non è un caso se l’Afghanistan è chiamato il ‘cimitero degli imperi’”. Un “cimitero” dal quale tutti stanno fuggendo.
Un rapporto riservato dell’intelligence Usa – già abbozzato durante la presidenza Trump ma tenuto nel cassetto per non irritare l’inquilino della Casa Bianca – rivelato qualche mese fa dal New York Times – confermava che in caso di ritiro delle truppe occidentali gli integralisti riprenderebbero subito il potere. Una previsione che è diventata realtà.
E allora, signor Segretario Blinken, quali sono gli “obiettivi raggiunti”? Vendere un fallimento politico come fosse una vittoria è roba da magliari. Una narrazione onirica distrutta dalla realtà.