Primarie: chi ha vinto e chi ha perso

La vittoria di Renzi apre una stagione nuova ma non cambia ancora le ambiguità ideologiche di questi anni. Tuttavia una generazione va a casa e il bilancio è incerto.

Primarie: chi ha vinto e chi ha perso
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10 Dicembre 2013 - 10.47


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di Francesco Peloso

Ora in molti dicono: D’Alema finalmente è caduto. E c’è nell’affermazione quella punta d’astio, quell’odio mal trattenuto, che pure D’Alema si è andato cercando e coltivando con superbia negli anni della sua lunga carriera politica, anche se ora suona un po’ malsano, come sempre del resto quando l’accanimento è sullo sconfitto. E questo è il punto: a contendere la Segreteria a Renzi è stato ufficialmente Cuperlo ma si è trattato quasi di una finzione scoperta tanto Cuperlo era sconosciuto alla gente, ai militanti, all’opinione pubblica: Cuperlo è stato tirato fuori all’ultimo momento per opporre a Renzi un volto e una persona decenti.

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Ha più o meno 50 anni, è stato un dirigente di lungo corso, non si è mai esposto in pubblico (il che non è una colpa), ma ha dimostrato, lui come altri suoi coetanei di quel “vecchio gruppo dirigente”, di non essere in grado di emanciparsi dai padri; padri un po’ stregoni, assai tirannici, padri innamorati del potere. E qui fa la differenza con Renzi, ed è tutta la differenza immaginabile: cioè la capacità di costruirsi in autonomia dal ‘vecchio mondo’, di affrancarsi e uccidere, metaforicamente!, il padre, è stato il movente del delitto, riuscito, di Renzi e votato a piene mani dalle regioni rosse. Qualcuno ha detto, mai sazio del ritornello, il Pci è morto oggi. Non è vero: il Pci è morto, storicamente, con il crollo del Muro di Berlino, e sarebbe dovuto morire 10 anni prima, all’epoca della rivolta di Danzica. Non se ne ebbe la forza allora e neanche nel decennio successivo. Ciò che però è andato realmente perduto dopo l’89 è stato il patrimonio di partecipazione popolare ineguagliabile costruito dal Pci.

La dispersione di quell’esperienza è però – va detto con chiarezza ancor più oggi – a carico dei post-comunisti (non dei post Dc, o della Margherita), cioè di D’Alema, Veltroni, Bersani, Violante, ecc. che con la determinazione metodologica dei comunisti (pure nelle differenze d’intenti) hanno cercato di risolvere la storia del Paese nella loro personale permanenza nel Palazzo; quest’ultima era concepita come presa del potere da parte di un gruppo di professionisti della politica in grado di cambiare le sorti del Paese. Il conformismo ideologico al quale hanno poi aderito è una responsabilità che li riguarda pure se avranno qua e là qualche merito, qualche successo nel loro bagaglio; quello che conta è infatti il quadro generale.

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Che oggi, poi, sia in vigore una democrazia carismatica, populistica, è un’evidenza che tocca tutti i partiti e buona parte dell’occidente; esistono molte altre esperienze sociali, di lotte civili, di presenze di base e di movimenti che non rientrano in questa rappresentazione e per questo sono anche poco rappresentante. Così come è del tutto fuori dall’orizzonte della sinistra una chiara critica al sistema di sperequazioni sociali feroci e selvagge nel quale siamo immersi a livello globale.

Renzi si presenta come l’ennesimo interprete di una modernizzazione italiana dal volto ambiguo – almeno fino ad ora – cioè non in grado di mostrare chiaramente come il sovvertimento giusto e direi sacrosanto delle vecchie prebende e consorterie – anche di sinistra, anche sindacali – si coniuga con una nuova stagione di diritti sociali, di solidarietà, con la costruzione di una società solidale. È insomma difficile credere che un paradigma puramente liberale applicato oggi a un Paese con il 40% di disoccupazione giovanile nel sud, sia sufficiente. Tuttavia, e allo stesso tempo, c’è un’esigenza reale di smantellamento di poteri e blocchi sociali incancreniti, di abolizione di ordini professionali e di corporativismi; eppure questo non può bastare di fronte alla crisi senza speranza nella quale siamo immersi. Vedremo, non per forza il giudizio deve essere ultimativo o sprezzante, resta però la necessità di una critica libera, del tutto assente – va ricordato – in questi lunghi anni dai gruppi dirigenti del Pd costruiti per cooptazione e fedeltà personali.

Non ho votato alle primarie già da alcuni anni, e sono andato alle urne (quelle vere) più per disperazione e per educazione che altro, ma la storia è maestra e ora si apre una stagione nuova; tirarsi fuori, in primo luogo come cittadini, è solo una rinuncia. C’è poi una conseguenza democratica in quanto è accaduto: Bersani perde le elezioni più facili e ora tocca a quello che fu la sua alternativa. (La democrazia è anche questa, funziona così…è un metodo).

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