Retorica e controllo del consenso in Edward Bernays
Top

Retorica e controllo del consenso in Edward Bernays

Nel volume "Miracoli. Vita e talenti", Serena D'angelo propone il ritratto di un autore poco conosciuto al grande pubblico ma che ha avuto un ruolo rilevante nello studio della propaganda. Una conversazione con l' autrice dopo la presentazione all' Università di Siena.

Retorica e controllo del consenso in Edward Bernays
Preroll

redazione Modifica articolo

4 Giugno 2025 - 12.42 Culture


ATF

di Alessandro Prato*
* Professore di Filosofia e teoria dei linguaggi presso il Dipartimento di Scienze Sociali Politiche e Cognitive (DISPOC) dell’ Università di Siena, dove insegna Teorie semiotiche e linguistiche e Retorica e linguaggi persuasivi

Serena D’angelo nel suo ultimo interessante libro Miracoli. Vita e talenti di Edward Bernays, leggendario maestro della propaganda (People edizioni 2025)  ci propone un ritratto a tutto tondo di questo autore ancora poco noto al grande pubblico nonostante sia stato – insieme a Walter Lippmann (1889-1974) – uno dei componenti dell’apparato ufficiale di propaganda di Woodrow Wilson dal quale è nata l’industria delle pubbliche relazioni e dell’intrattenimento. Con il suo importante libro Propaganda pubblicato nel 1928 (e disponibile anche in italiano) Bernays (1891-1995) ha influenzato profondamente le strategie comunicative e politiche dal secolo scorso e fino ai giorni nostri sostenendo la necessità per una società  democratica di ricorrere a tecniche scientifiche per plasmare e inquadrare l’opinione pubblica e per dar luogo a quella ingegneria o fabbrica del consenso in cui la «minoranza intelligente» riesce a plasmare la maggioranza controllando ciò che pensa, indirizzando la sua attenzione verso gli aspetti superficiali della vita come il consumo in modo da evitare che partecipi alla vita pubblica.

Abbiamo incontrato Serena D’Angelo all’Università di Siena per la presentazione del suo libro e l’occasione è stata utile per farle alcune domande sul suo lavoro.

Come mai hai deciso di scrivere un libro su Bernays e perché questa figura secondo te è ancora oggi importante per le scienze della comunicazione?

Edward Bernays è nato nel 1891 ed è morto appena trent’anni fa, nel 1995; la sua longevità e il suo protagonismo a mio avviso hanno fatto della sua carriera una lente utile per rileggere tutto il Novecento. È stato artefice di campagne che hanno avuto un impatto dirompente (dal bacon nelle colazioni degli statunitensi al colpo di Stato in Guatemala del 1954), la dimostrazione del fatto che la comunicazione ha davvero il potere di dar forma alle cose. Leggendo delle sue imprese apprendiamo innanzitutto strategie e tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica ancora oggi in uso (come l’impiego di voci terze apparentemente neutrali per suffragare le tesi dei privati, o la costruzione di news ed eventi ad hoc, capaci di attrarre l’attenzione di una stampa che è sempre a caccia di notizie facili) ma c’è anche il fatto che, al di là dei singoli casi di studio, Bernays ci mette davanti all’evidenza per cui le strategie finalizzate a vendere un prodotto di consumo da un certo punto in poi nella storia sono andate a sovrapporsi alle strategie atte a “vendere” un leader politico, un ideale o un’intera nazione, come se fossero la stessa cosa, e superando così ogni distinzione tra consumatori e cittadini – ovviamente in favore dei primi.

Leggi anche:  Abudulrazak Gurnah e il dovere di accogliere i rifugiati

Nel libro giustamente sottolinei la centralità del coinvolgimento emotivo per le strategie persuasive, perché questo elemento è così importante?

Si tratta di una convergenza di fattori dettati dal contesto. In primo luogo, abbiamo l’irruzione sulla scena di un nuovo soggetto, cioè la massa, che a detta dei sociologi coevi (Gustave Le Bon su tutti) e anche di Sigmund Freud (di cui Bernays era nipote sia da parte di madre sia da parte di padre) è detentrice di una mente diversa dalla mente del singolo: la massa non pensa, agisce sull’onda dell’emotività e dell’istinto. Il secondo fattore di cui tener conto è il cambio del modello produttivo: l’industria, tra l’Ottocento e il Novecento, vive una rivoluzione, il fordismo accelera la produttività e il numero dei beni messi in commercio aumenta vertiginosamente.

Bernays si ritrova praticamente al centro di questa tempesta perfetta, e si fa promotore del seguente cambio di paradigma: da una società dei bisogni, si deve passare a una società dei desideri. Non solo perché i bisogni non bastano, da soli, a scongiurare i rischi legati alla sovrapproduzione e al ristagno, ma anche perché le masse, secondo l’interpretazione delle élite, non rispondono ad argomenti logici ma si muovono solo sulla base della pancia, e dunque per comunicare efficacemente con l’opinione pubblica occorre farlo tramite simboli, premendo su aspirazioni e appetiti non immediatamente accessibili su un piano cosciente. Così nasce, a suo dire, l’idea che per vendere un’automobile occorra fare appello all’idea di virilità, e via dicendo.

Leggi anche:  Sarà presentato a Ravenna il nuovo libro di Oney Tapia

Puoi spiegare come si è svolta la campagna pubblicitaria del tabacco organizzata da Bernays e le ragioni all’epoca del suo successo?

Assunto dalla Lucky Strike, Bernays nel 1929 inscenò una delle campagne più famose della storia, ossia quella delle cosiddette “Fiaccole della libertà” (Torches of Freedom). Dopo essere riuscita ad attrarre una nuova fetta di mercato, cioè l’utenza femminile, l’azienda del tabacco aveva davanti a sé un’ulteriore prova: convincere le donne a fumare anche all’aperto e non solo tra le mura domestiche, sdoganando il tabù secondo il quale non era appropriato per una signora farsi vedere in pubblico con una sigaretta in mano. Per riuscirci, il PR sfruttò sapientemente le sensibilità emergenti del tempo, facendo leva sul desiderio di emancipazione delle destinatarie dell’operazione. Invitò (sotto mentite spoglie) decine di giovani donne a prender parte a un corteo che si sarebbe tenuto la domenica di Pasqua; le partecipanti avrebbero sfilato per le arterie centrali di Manhattan, facendo sfoggio delle loro Lucky Strike in sfida a ogni pregiudizio (da qui il nome, efficacissimo, della campagna, che si rivelò un successo mediatico). Ciò che colpisce, oltre alla particolarità dell’iniziativa, è sicuramente la capacità da parte di Bernays e dei suoi colleghi di sfruttare il trend e sovvertirlo, svuotandolo di senso (una pratica non dissimile dai vari -washing odierni), ancor più rilevante se si pensa che quelle stesse menti in precedenza avevano convinto le donne a fumare con lo slogan «reach for a Lucky instead of a candy», non proprio un manifesto di liberazione.

Leggi anche:  Premio Strega Giovani, vince Andrea Bajani con “L’anniversario”

Oltre all’importante volume “Propaganda” del 1928 (tradotto anche in italiano) Bernays ha scritto anche altri testi su questi temi, quali sono e perché rimangono per chi studia la comunicazione esempi importanti?

I due capisaldi della sua produzione sono sicuramente Crystallizing Public Opinion (1923) e The Engineering of Consent (1947). Come Propaganda, l’importanza di questi volumi sta nel fatto che è anche grazie a essi se Bernays è riuscito a imporsi come “pioniere” della disciplina da lui esercitata, formalizzando una serie di strategie concrete laddove altri si erano limitati, a detta del PR, a fornire più che altro teorie (uno dei principali riferimenti di Bernays, in questo senso, era Walter Lippmann). I suoi testi però sono rilevanti non soltanto per le tecniche che vi sono riportate, ma anche per la visione di società che da essi traspare, una società fortemente oligarchica, che ha un disperato bisogno di un’élite colta che tenga le redini e manipoli le masse per «dare forma al caos» e salvarle da loro stesse. Sapere che queste idee trovarono posto nella biblioteca privata di Joseph Goebbels, tra gli altri, non dovrebbe far passare in secondo piano l’importanza che hanno avuto e che hanno all’interno delle democrazie, le prime vere artefici della propaganda per come la conosciamo. Studiare questi aspetti, capire cosa significhi «fare propaganda in tempo di pace», credo sia un buon modo per allenare il nostro spirito critico e interrogarci sugli inevitabili risvolti etici sollevati da Bernays e dai suoi eredi.

La copertina del libro di Serena D’angelo
Native

Articoli correlati