“Bibi si comporta come un pazzo. Bombarda tutto in continuazione. Questo potrebbe minare ciò che Trump sta cercando di fare.”
“La sensazione è che ogni giorno ci sia qualcosa di nuovo. Che diavolo?”
“Netanyahu è a volte come un bambino che non sa comportarsi.”
Parole durissime. Ma non pubbliche. Sono le frasi riferite da diversi funzionari della Casa Bianca ad Axios, dopo l’ennesima escalation israeliana: bombardamenti in Siria, raid nel cuore di Damasco, e persino l’attacco a una chiesa cattolica nella Striscia di Gaza, la chiesa della Sacra Famiglia. Tre morti, almeno dieci feriti, nel solo attacco alla parrocchia. Era uno degli ultimi rifugi rimasti per i civili cristiani intrappolati nella guerra.
A far infuriare Washington, stavolta, non è stata la devastazione, né il bilancio dei morti. È stata la perdita di controllo. O meglio: l’imbarazzo. Perché gli attacchi di Netanyahu – in particolare il raid contro un sito cristiano – hanno costretto Donald Trump, attento al voto evangelico ma anche ai rapporti con la Santa Sede, a telefonare al premier israeliano e chiedere spiegazioni. Non una condanna, non una presa di distanza. Solo una chiamata.
Eppure, se si ascoltano le voci interne all’amministrazione americana, la frustrazione è palpabile. Netanyahu viene definito un “pazzo”, un leader “distruttivo”, “impulsivo”, “come un bambino che non sa comportarsi”. E allora la domanda si impone: perché Trump – sempre così pronto a tuonare contro i nemici, i deboli, gli alleati che non seguono la sua linea – non ha mai davvero affrontato Netanyahu? Perché l’uomo che minaccia da anni ritorsioni contro Teheran, Pechino, persino Parigi o Berlino, si guarda bene dal criticare apertamente il premier israeliano o da mettere in discussione l’alleanza, anche di fronte all’evidente violazione delle leggi internazionali e ai massacri di civili?
È lo stesso interrogativo che molti si pongono anche su un altro fronte: la Russia. Di fronte alle aggressioni di Vladimir Putin, Trump ha spesso mostrato ambiguità, silenzi, quando non complicità. Con Netanyahu, il copione è simile: dietro le quinte l’irritazione cresce, ma in pubblico il capo della destra americana si mostra accomodante, protettivo, addirittura deferente. Quando si tratta di Israele o di Mosca, la voce tonante di Trump si fa improvvisamente docile.
Intanto, la situazione sul campo precipita. I raid israeliani in Siria hanno colpito postazioni governative e militari nella regione di Damasco, generando reazioni furiose non solo da parte di Assad, ma anche da parte di altri attori regionali, come la Turchia e l’Arabia Saudita, preoccupati per una possibile espansione del conflitto. La chiesa cattolica a Gaza è solo l’ultimo simbolo violato. Ma non il primo: ospedali, scuole, campi profughi sono stati presi di mira per mesi, in una campagna militare che ha ormai superato ogni soglia di tollerabilità umanitaria.
La verità è che il disprezzo crescente nei confronti di Netanyahu da parte della stessa amministrazione Usa – pur ancora guidata da un Trump che insegue consensi e stabilità – non ha sinora prodotto nessuna svolta. E probabilmente non la produrrà.
Perché se è vero che “Bibi bombarda tutto in continuazione”, è altrettanto vero che a Washington – soprattutto dalle parti di Trump – c’è chi lo lascia fare. Anche quando a cadere sotto le bombe sono bambini, ospedali e ora chiese. Anche quando il mondo guarda sgomento. Anche quando la storia – e la coscienza – chiederebbero almeno una parola chiara.
Argomenti: donald trump