Ecatombe di Pylos, una "strage di Stato" di cui nessuno darà conto
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Ecatombe di Pylos, una "strage di Stato" di cui nessuno darà conto

Non è stata una tragedia. E’ stato un crimine contro l’umanità. E le responsabilità si fanno di giorno in giorno più chiare. L’ecatombe di Pylos poteva essere evitata. Non averlo tentato configura una “strage di Stato”.

Ecatombe di Pylos, una "strage di Stato" di cui nessuno darà conto
Strage dei migranti a largo del Peloponnesp
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

20 Giugno 2023 - 14.18


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Non è stata una tragedia. E’ stato un crimine contro l’umanità. E le responsabilità si fanno di giorno in giorno più chiare. L’ecatombe di Pylos poteva essere evitata. Non averlo tentato configura una “strage di Stato”.

La farsa dei soccorsi

Le ricerche dei dispersi sono state sospese e il senato pakistano di Islamabad ha resto noto che sono più di 300 le vittime pakistane annegate nel naufragio del motopeschereccio partito da Tobruk in Libia con 750 persone e affondato verso le due del mattino di martedì 14 giugno a sud di Pylos, a 45 miglia nautiche dalla costa greca del Peloponneso. Intanto si fa sempre più fragile la versione delle autorità greche. A mettere in discussione la ricostruzione offerta dalla Guardia costiera di Atene, che aveva insistito sul rifiuto del soccorso da parte dei migranti, arriva anche il rapporto del comandante della petroliera Faithful Warrior, uno dei cargo che hanno raggiunto le coordinate del peschereccio nelle 7 ore che, anche dai rilevamenti satellitari, non risulterebbe essersi mosso dalla sua posizione. Il comandante Kostantinidis Panagiotis riferisce di aver comunicato al Centro di ricerca e soccorso ellenico alle 21.45 del 13 giugno “che il peschereccio stava oscillando pericolosamente a causa del sovraffollamento su tutti i ponti”.

Una situazione di pericolo oggettiva, dunque, quella segnalata dal ponte della Faithful Warrior, che dopo aver fatto arrivare acqua e viveri all’imbarcazione dei migranti riporta la “riluttanza del comandante del peschereccio a collaborare con la nostra nave per le operazioni di assistenza” e il lancio in mare dei rifornimenti da parte delle persone a bordo. Il tutto riferito anche al centro di coordinamento ellenico alle 21:51, quando alla petroliera viene chiesto di allontanarsi e di tenersi a 5 miglia nautiche, “mentre contemporaneamente un mezzo della Guardia costiera greca si avvicinava all’imbarcazione sovraffollata fino a distanza di assistenza, come appariva sugli strumenti elettronici di navigazione vista l’ora tarda”, scrive il comandante Panagiotis. Dopo la mezzanotte, alle 00:30 del 14 giugno, il centro di coordinamento greco solleva lui e la sua nave dall’operazione di ricerca e soccorso e lo invitava a proseguire il suo viaggio. Quando la petroliera si allontana, riporta il comandante, “la nave della Guardia costiera era ancora accanto al peschereccio, come appariva sul nostro radar”.

Una ricostruzione che smentisce una volta di più quella fornita fin dalle prime ora dalla Guardia costiera greca, concentrata sul rifiuto dei migranti ad essere soccorsi per evitare di essere sbarcati in Grecia quando la destinazione era l’Italia. Ma come ha detto anche il rappresentante dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale Vincent Cochetel, “la barca era inadeguata e, a prescindere da ciò che alcune persone a bordo possono aver detto, la nozione di pericolo non può essere discussa”. In altre parole, come ha scritto il giurista Fulvio Vassallo Paleologo, “la nozione di distress, che impone un intervento immediato di salvataggio, non può essere oggetto di discussione tra naufraghi e soccorritori. Le persone vanno comunque messe in sicurezza, anche con il lancio di giubbetti salvagente, e trasbordate nel più breve tempo possibile”. Un tipo di intervento che anche la Guardia costiera italiana ha più volte effettuato, anche di fronte a motopescherecci sovraffollati con centinaia di persone a bordo. Ma da chiarire è proprio l’intervento della Guardia costiera, a partire dalla possibilità che una vera e propria operazione di soccorso non sia mai realmente iniziata.

Da quanto emerso, anche dalle testimonianze raccolte tra i 104 sopravvissuti, il peschereccio sarebbe effettivamente stato agganciato dalla Guardia costiera con un cavo. Da capire se proprio questa operazione si sia rivelata fatale per un’imbarcazione che, senza più spinta del motore e instabile per l’enorme carico, era già a rischio di capovolgersi. Altrettanto importante comprendere la natura della scelta di trainare un peschereccio stracolmo e instabile. La Guardia costiera, che in un primo momento ha negato di aver legato a una corda il peschereccio, ha poi detto che i migranti l’avrebbero sciolta per non farsi portare in Grecia e infine che l’operazione non serviva a trainare l’imbarcazione ma solo a stabilizzare l’avvicinamento per verificare le necessità a bordo. Molte ong hanno invece accusato la Guardia costiera di voler trascinare i migranti fuori dalle acque Sar greche (search and rescue) verso la zona Sar maltese, nonostante le molte miglia da percorrere in quelle condizioni. Un’operazione alla quale la guardia costiera di Atene non sarebbe nuova. La settimana scorsa 29 migranti sono stati così respinti nelle acque territoriali turche e poi salvati al largo della costa del distretto di Dikili, nella provincia turca di Izmir, secondo quanto dichiarato della guardia costiera turca. La Turchia e i gruppi per i diritti umani hanno ripetutamente condannato la pratica illegale utilizzata dalla Grecia per respingere i migranti, affermando che “viola i valori umanitari e il diritto internazionale mettendo in pericolo la vita di migranti vulnerabili, tra cui donne e bambini”.

Intanto salgono a 80 le vittime accertate, e per Atene, che ha avviato un’indagine chiedendo la collaborazione di Europol e in queste ore sta sentendo i 12 superstiti egiziani sospettati di essere trafficanti, le cose da chiarire sono tante e sembra sempre più remota la possibilità di confermare le prime versioni ufficiale. Viste le contraddizioni emerse, sono sempre di più le voci che domandano un’indagine internazionale e indipendente. La ong Alarm Phone ha messo a disposizione le comunicazioni ricevute e rilanciate alle autorità greche, compresa la richiesta di aiuto da parte di migranti a bordo del peschereccio che otto ore prima della tragedia, alle 17:20 del 13 giugno, comunicavano: Il capitano è scappato con una scialuppa, per favore aiutateci”.

Inoltre, la Bbc ha pubblicato le rilevazioni satellitari che, oltre ai tanti cargo giunti sulla posizione, mostrerebbero come per ben 7 ore il peschereccio non si sarebbe mosso.. Un punto subito messo in discussione da un comunicato della Guardia costiera greca pubblicato in risposta alle notizie della stampa internazionale: “In totale, il peschereccio ha percorso una distanza di circa 30 miglia nautiche dal momento del rilevamento al momento dell’affondamento”. Quanto alle telecamere della motovedetta della Guardia costiera 920, che le autorità sostengono essere state spente, la testata investigativa documentonews.gr sostiene invece che “il 15 giugno Miltiadis Zouridakis, tenente della Guardia costiera e capitano della motovedetta 920 che si è avvicinata al peschereccio la notte del naufragio, ha debitamente presentato materiale audiovisivo e cinque fotocopie di un diario di bordo della barca” al tenente della Guardia costiera, Nikolaos Tsoulos.

Testimonianze che inchiodano

A raccoglierle è Letizia Tortello, inviata de La Stampa a Kalamata:  «Siaffediw Ahmad, 22 anni, non è sulla lista. Aziz Azzam, 41 anni, non è sulla lista. Qais Alsahar, 16 anni, non è nella lista». Alle due del pomeriggio di ieri, ogni speranza di trovarli vivi finisce in fondo al mare. Una funzionaria della Guardia costiera di Kalamata esce con un foglio scritto a mano e inizia a leggere i nomi dei dispersi, che si possono iniziare a chiamare morti. I parenti sono venuti da mezza Europa. Per la stragrande maggioranza sono uomini sotto i 40 anni. Stanno assiepati alla porta dell’autorità marittima, in un silenzio straziante, mentre la funzionaria recita il rosario dei defunti. I congiunti hanno lo sguardo impietrito, dopo giorni passati nel caos dei rimpalli tra uffici e ospedale dove vengono respinti e nessuno protesta mai, dopo telefonate al servizio di emergenza attivato dal Ministero per la Migrazione venerdì, con gli interpreti dall’arabo che sanno dire: «Grazie di esservi registrati, per il vostro parente vi richiameremo noi». 

Il porto di Kalamata è un andirivieni di siriani ed egiziani, pachistani con le lacrime agli occhi. Al terzo giorno dal naufragio del peschereccio partito dalla Libia con 750 persone a bordo e affondato al largo della Grecia, lo strazio delle vittime diventa sempre più reale. Hemmad Emad Abdulwahed, siriano di 39 anni, è seduto su un marciapiede senza forze, ha la testa tra le mani, lo sguardo assente. È lo zio di Iakub, che ormai considera morto, come tutti i minorenni che erano a bordo dell’Adriana. Piange e piange senza fine, da solo. È arrivato dalla Svezia dove fa l’operaio in fabbrica per cercare il piccolo di 13 anni. Mostra la sua foto in uno degli ultimi scatti con l’amico di famiglia Hadi Makieh, partito il 10 giugno da Tobruk con lui. Papà, mamma e sorelle di Iakub sono rimaste a Damasco. Lui, era stato “prescelto” per una vita migliore. Volevano arrivare in Italia, ci racconta lo zio, per andare dai nonni nel Nordeuropa. «Li ho sentiti l’ultima volta prima che salpassero – spiega –, mi hanno detto spegniamo i cellulari, ce li sequestrano». Hemmad ha pagato in contanti 8 mila euro per il viaggio di Iakub, un prezzo “maggiorato”, perché 5000 erano per arrivare fino alle nostre coste, il resto per il tragitto verso la Svezia. A chi li ha dati? «È venuto un libico da Vienna a prenderli a Malmo», dice ancora. Ha venduto una casa e un’auto, pur di far scappare Iakub dalla guerra. Il ragazzo era nato con la guerra, non ha frequentato nemmeno la scuola per la guerra. 

Nel naufragio, l’accompagnatore Hadi si è salvato. Ora è nel campo profughi di Malakasa, ad Atene. Ha raccontato al suocero, venuto anche lui dalla Siria per cercarlo, testimonianze agghiaccianti: «Ci davano da mangiare un dattero al giorno, niente acqua per tenerci tranquilli. Non c’erano giubbotti salvagente. Quando è scattata una rivolta, i trafficanti hanno ucciso 10 persone, gli hanno sparato». Tutto questo prima dell’ecatombe di mercoledì. 

L’inchiesta e le incongruenze
Hadi ha perso i sensi appena l’hanno trovato, quattro ore dopo il naufragio, era aggrappato a un barile di plastica. Si era ferito a una spalla. Dalle carte dell’inchiesta, condotta dalla Procura greca, anche se Atene ha chiesto il supporto dell’Europol, emerge la deposizione di un pachistano di 24 anni, che ha visto sparire moglie e bambini, chiusi nelle cabine, mentre lui era sul ponte. Ricostruisce i giorni di navigazione e gli orari: «Il 13 giugno (la barca è affondata intorno alle 2 di notte, ndr), i trafficanti ci comunicano che si sono spenti i motori». Un video, comparso ieri 

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