di Rock Reynolds
Il peccato originale è il colonialismo, con gli strascichi secolari che si porta appresso e lo sfruttamento da parte delle potenze occupanti – nella fase di abbandono – di elite locali che per anni hanno tenuto bordone alle scelte dell’impero, approfittando dei privilegi loro concessi attraverso un’amministrazione smaccatamente clientelare se non apertamente corrotta. Tali élite, una volta partiti i colonialisti, ne diventano il braccio locale, finendo per risultare ancora più invise alla popolazione indigena rispetto agli ex-capi.
Pochi giorni fa ricorrevano i cent’anni della nascita di Patrice Lumumba, padre del Congo indipendente e simbolo di un’Africa che tentava di lasciarsi per sempre alle spalle il colonialismo. Per questa sua visione del mondo, Lumumba fu sacrificato sull’altare della storia. Il lavoro sporco, però, come accade spesso, non lo fecero i colonialisti belgi e la CIA, che preferirono delegarlo ai suoi oppositori interni. Senza troppe difficoltà, i suoi nemici ne rovesciarono il governo e lo uccisero, dopo averlo torturato a lungo, per poi smembrarne il corpo.
La storia si ripete. La storia dell’impero si ripete. L’impero romano, l’impero francese, l’impero russo. Quello inglese. Quelli spagnolo, portoghese, belga e tedesco. Quelli giapponese e cinese. Potevano mancare gli Stati Uniti in questo campionario di prevaricazioni e nefandezze? La loro scelta di fare da polo strenuo di difesa di un modello di democrazia occidentale all’insegna del capitalismo è all’origine di buona parte delle stragi di stato avvenute in Italia, dopo la Seconda guerra, a partire da Piazza Fontana, per arrivare alla stazione di Bologna, nonché di molte pesanti distorsioni internazionali. In fondo, persino l’Italia stessa, con l’esperienza fascista, aveva tentato un ritorno nostalgico quanto fallimentare ai fasti dell’impero romano, a partire da simboli e slogan.
Anche alla luce di tali considerazioni, non sarebbe male ripensare ai discutibili elogi di cui la storia ha fatto oggetto Winston Churchill. Troppo facile chiederne la celebrazione al suo popolo, quello britannico, vittorioso nella Seconda guerra. Decisamente più scivolosa la ricerca di un suo elogio da parte degli indiani e, ancor più, degli irlandesi. In fondo, Churchill era un nobile e si considerava in tutto e per tutto un suddito della corona inglese e, dunque, dell’impero britannico. A quando una dichiarazione condivisa di ciò che è davanti agli occhi di tutti? Ovvero che monarchia e aristocrazia, secondo i valori del mondo moderno, sono un crimine contro l’umanità e che la convinzione della propria diversità e superiorità sulla base del sangue è la forma più sublime – si fa per dire – di razzismo? Per Churchill l’obbedienza all’impero era tutto: qualsiasi altra cosa occupava una posizione di rincalzo.
La decolonizzazione (il Mulino, traduzione di Marco Cupellaro, pagg 182, euro 14)
Di Raymond F. Betts è un interessante saggio che fa luce su un passaggio determinante della storia contemporanea, aiutandoci a comprendere meglio le storture a cui ogni terra soggetta per decenni, se non per secoli, a un processo di colonizzazione va inevitabilmente incontro nel momento in cui raggiunge l’autonomia, per “gentile” concessione della potenza coloniale oppure attraverso una violenta sollevazione popolare.
Il saggio si apre rammentando al lettore che solo due volte, nel Novecento, un impero coloniale è riuscito a trasmettere il senso di unità e grandeur che ne rappresenta il fondamento filosofico. Guarda caso, entrambe le volte lo ha fatto attraverso un’esposizione universale, la vetrina della superiorità stessa della potenza coloniale sul resto del mondo: a Londra nel 1924 e a Parigi nel 1931. L’intenzione era quella di dare al pubblico «l’illusione… di un insieme che trascendeva la somma delle singole parti».
La realtà era ben più prosaica e complessa: un serio tentativo di partecipazione così come di conoscenza reciproca non è mai stato nelle intenzioni del colonizzatore e forse, comprensibilmente, nemmeno in quelle del colonizzato. Alla base di tutto, manco a dirlo, la presunzione incrollabile di una netta superiorità e nobiltà umana del primo sul secondo, guardato sempre dall’alto in basso e preso in considerazione solo in quanto strumento di arricchimento. «Gli atteggiamenti dei colonizzatori europei verso i popoli colonizzati variavano generalmente dall’aperto disprezzo alla romantica accondiscendenza» sottolinea senza giri di parole Betts. Insomma, convivenza ma nessuna autentica frequentazione. Il mito del buon selvaggio? D’altro canto, «progresso civile e ordine… erano ciò che gli europei ritenevano di elargire al resto del mondo». Addirittura, non pochi europei erano convinti che la storia appartenesse alla sola Europa e che la storia africana, posto che ne avesse una, si fosse aperta soltanto dopo l’arrivo dei primi europei. Il sarcasmo con cui gli europei guardavano allo scarso sfruttamento delle risorse preziose di certi paesi da parte della popolazione indigena la dice lunga sulla ristrettezza della loro visione del mondo.
Dopo la sconfitta dell’impero tedesco e di quello ottomano nella Prima guerra mondiale, iniziò a concretizzarsi il timore che il pianeta fosse troppo grande per poterlo controllare realmente attraverso un impero. Ma, difficoltà intrinseche a parte, ai colonizzatori le ricchezze delle colonie facevano ancora gola e, dunque, si pensò di istituire dei “mandati” attraverso cui le potenze mandatarie avrebbero dovuto favorire il progresso di quei territori e delle relative popolazioni. Una scommessa pressoché inevitabile ma destinata a un fallimento certo.
Il vero spartiacque che segnò la fine definitiva del colonialismo fu, però, la Seconda guerra, quando tutte le tradizionali grandi potenze europee si trasformarono in «stati di secondaria importanza… con l’ascesa quasi verticale degli Stati Uniti».
Non a caso, la fase «della decolonizzazione fu l’epoca della pax americana». A essa corrispose un periodo di rivoluzione dialettica, di espressione pubblica di concetti in precedenza considerati inammissibili, soprattutto se sbandierati da popolazioni che stavano affrancandosi dal giogo coloniale. I leader di tali movimenti erano una nuova élite intellettuale formatasi nelle scuole dei loro stessi padroni, talvolta addirittura in Europa. In sostanza, lo slancio protestatario che accompagnò molte sollevazioni nazionali nelle colonie si ispirava a movimenti ribelli europei e, soprattutto, all’internazionale della lotta per i diritti umani e per l’emancipazione studentesca che ebbe il momento di massimo fulgore sul finire degli anni Sessanta. Ci fu, poi, anche una presa di posizione assai diffusa tra le ex-colonie riguardo alla contrapposizione tra blocco statunitense e blocco sovietico, con la formazione di un terzo polo, quello dei paesi non allineati, sancita nella conferenza di Belgrado del 1961.
In questo libro più che di neocapitalismo si parla, come dice il titolo, di decolonizzazione. Le due cose sono strettamente connesse.
Il caso più lampante e di maggiore attualità è quello della Palestina, sotto mandato britannico dal 1920 al 1948, anno della nascita del moderno stato di Israele, già protettorato britannico prima dello smembramento di un altro impero, quello ottomano. Fu proprio attraverso il ricatto delle armi – attentati dinamitardi a ripetizione a opera dell’Irgun, il gruppo armato clandestino sionista che per primo nella zona utilizzò metodologie di guerriglia su ampia scala, in seguito tacciate di terrorismo quando sfruttate da organizzazioni palestinesi – che la Gran Bretagna decise di abbandonare la Palestina. Insomma, gli effetti della decolonizzazione in tutta l’area mediorientale si riverberano con violenza ancor oggi.
E al crollo degli imperi e alla formazione delle nuove nazioni a cui nel periodo postbellico hanno fatto spazio si deve una parte di ciò che è in corso tuttora anche se, con ogni probabilità, oggi stiamo assistendo a un nuovo cambio di paradigma e di sistema. È un retaggio del neocolonialismo, che è ben lungi dall’essere scomparso, ma che oggi assume forme diverse. Ed è ancor più una conseguenza durevole della diffusione planetaria dell’impero britannico, con l’imposizione più o meno forzata di una cultura e soprattutto di una lingua, quella inglese, che è stata ed è tuttora un potente strumento di colonizzazione culturale.