l premier israeliano Benjamin Netanyahu, in un’intervista a i24, ha confermato con le sue stesse parole ciò che da mesi osservatori internazionali denunciano: la guerra a Gaza non è soltanto una campagna militare, ma un progetto ideologico di annessione e pulizia etnica.
Netanyahu ha dichiarato di sentirsi impegnato in una “missione storica e spirituale” e di essere “molto” legato alla visione della Grande Israele, concetto che include non solo i territori destinati a un futuro stato palestinese, ma persino aree oggi appartenenti alla Giordania e all’Egitto. Un’idea che, nella sua formulazione originaria, nacque all’indomani della Guerra dei Sei Giorni del 1967 per rivendicare l’insieme dei territori conquistati — Gerusalemme Est, Cisgiordania, Striscia di Gaza, Penisola del Sinai e Alture del Golan — e che oggi, nelle parole di Netanyahu, diventa una giustificazione aperta per cancellare definitivamente la Palestina.
Come se non bastasse, il premier ha esplicitamente ammesso di voler facilitare l’esodo dei palestinesi da Gaza, mascherandolo da “libera scelta”: “Permetterò ai residenti di Gaza di andarsene”, ha detto, invitando “i Paesi che vogliono aiutare i palestinesi” ad “aprire loro le porte”. Una formula che suona come un incoraggiamento all’espulsione di massa, non diversamente da quanto avvenuto in altre guerre quando intere popolazioni sono state costrette a fuggire.
Dietro queste dichiarazioni non si nasconde più nemmeno la finzione di un conflitto “difensivo”: Netanyahu parla di un disegno storico e spirituale che, nei fatti, significa annettere la terra e cacciare chi ci vive. Una missione che, se realizzata, equivarrebbe alla cancellazione fisica e politica del popolo palestinese.
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