Navanethem “Navi” Pillay è una figura emblematica del diritto internazionale, una giurista sudafricana di origini tamil indiane che ha dedicato la vita alla lotta contro l’ingiustizia, l’apartheid e le violazioni dei diritti umani.
Nata il 23 settembre 1941 a Durban, in Sudafrica, in un contesto di estrema povertà sotto il regime razzista dell’apartheid, Pillay rappresenta il simbolo di una tenacia incrollabile. Cresciuta in un quartiere povero di Clairwood, figlia di immigrati indenturati nelle piantagioni di zucchero, ha trasformato le privazioni della sua infanzia in un motore per il cambiamento globale. Oggi, all’età di 84 anni, è riconosciuta come una delle voci più autorevoli e coraggiose nel denunciare i crimini contro l’umanità, culminando nel suo ruolo di presidente della Commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati, dove ha recentemente stabilito che a Gaza è in corso un genocidio.
Le origini: da Durban all’apartheid come avvocata pioniera
Pillay ha mosso i primi passi in un Sudafrica segregato, dove l’educazione era un lusso per le famiglie non bianche. I suoi genitori, Narrainsamy e Santhama Nadoo, la incoraggiarono a studiare nonostante le difficoltà economiche: la madre arrivava a rubare matite per farla frequentare la scuola.
Nel 1963 si è laureata in Lettere all’Università del Natal (oggi KwaZulu-Natal) e nel 1965 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza, diventando una delle prime donne non bianche a farlo. Durante gli studi, si è unita al Non European Unity Movement, un gruppo anti-apartheid, segnando l’inizio del suo impegno attivista.
Dopo l’università, Pillay ha completato il praticantato sotto la guida di N.T. Naicker, un avvocato anti-apartheid bandito dal regime. Nel 1967 ha aperto il primo studio legale femminile nella provincia del Natal, diventando la prima donna non bianca a esercitare come avvocata in quella regione.
La sua carriera forense è stata un atto di ribellione: ha difeso attivisti anti-apartheid, tra cui membri del Black Consciousness Movement come Saths Cooper e Strini Moodley, e persino suo marito Gaby Pillay, detenuto dalla polizia di sicurezza. Ha esposto casi di tortura e isolamento, ottenendo nel 1973 il diritto per i prigionieri politici – inclusi quelli di Robben Island come Nelson Mandela – di avere accesso a un avvocato.
È stata co-fondatrice del South African Advice Desk for Abused Women, un centro di supporto per vittime di violenza domestica, e ha contribuito alla stesura della clausola sull’uguaglianza nella Costituzione sudafricana post-apartheid.
Per approfondire le sue competenze, Pillay si è trasferita negli Stati Uniti: nel 1982 ha ottenuto un Master in Diritto ad Harvard e nel 1988 un Dottorato in Scienze Giuridiche, diventando la prima sudafricana a conseguire un dottorato in legge da quell’università.
La carriera internazionale: da giudice a icona della giustizia globale
Con la fine dell’apartheid, Pillay è entrata a pieno titolo nella scena internazionale. Nel 1995, nominata da Nelson Mandela, è stata la prima donna non bianca giudice dell’Alta Corte sudafricana, presiedendo casi civili e penali.
Nello stesso anno, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite l’ha eletta giudice al Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (ICTR), dove ha servito per otto anni. Dal 1999 al 2003 è stata presidente del tribunale, un periodo cruciale in cui ha contribuito a stabilire la giurisprudenza sul riconoscimento dello stupro e della violenza sessuale come atti di genocidio nel caso Jean-Paul Akayesu – un precedente che ha cambiato per sempre il diritto internazionale umanitario, con un’attenzione specifica ai crimini contro le donne.
Dal 2003 al 2008 è stata giudice alla Corte Penale Internazionale (CPI) all’Aia, servendo nella Camera d’Appello e contribuendo a casi su genocidi e crimini di guerra.
Nel 2008 è stata nominata Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, incarico che ha ricoperto fino al 2014, con un mandato esteso di due anni per la sua efficacia. In questa posizione ha denunciato violazioni in tutto il mondo, inclusi lo Sri Lanka (dove le sue origini tamil le valsero accuse di parzialità, da lei smentite) e la Siria, ed è stata talvolta criticata per la fermezza con cui denunciava le repressioni governative.
Attualmente, oltre al ruolo di giudice ad hoc alla Corte Internazionale di Giustizia (per il caso Gambia contro Myanmar sul genocidio dei Rohingya), Pillay presiede la Commissione d’Inchiesta ONU sui Territori Palestinesi Occupati (istituita nel 2021 dal Consiglio per i Diritti Umani). Ha anche ricoperto posizioni come presidente del Consiglio consultivo dell’Accademia Internazionale dei Principi di Norimberga (2017-2025) e membro della Commissione Internazionale contro la Pena di Morte.
Il coraggio contro il genocidio a Gaza: una dichiarazione storica
Il culmine della sua carriera è arrivato il 16 settembre 2025, quando, come presidente della Commissione, ha pubblicato un rapporto che conclude: “Israele ha commesso genocidio contro i palestinesi nella Striscia di Gaza”.
Basato su indagini dal 7 ottobre 2023 al 31 luglio 2025, il documento accusa alti funzionari israeliani – tra cui il primo ministro Benjamin Netanyahu, il presidente Isaac Herzog e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant – di aver incitato e orchestrato una “campagna genocida” attraverso dichiarazioni disumanizzanti e ordini che hanno portato a quattro dei cinque atti genocidari definiti dalla Convenzione del 1948: uccisioni, danno fisico grave, condizioni di vita calcolate per distruggere il gruppo e misure per impedire nascite.
Pillay ha paragonato la situazione al genocidio ruandese che lei stessa ha giudicato, sottolineando la disumanizzazione delle vittime e l’ignoranza degli ordini della Corte Internazionale di Giustizia del 2024 per garantire aiuti umanitari.
“Genocidio sta avvenendo a Gaza e continua ad avvenire”, ha dichiarato Pillay, esortando la comunità internazionale a non rimanere in silenzio e a punire i responsabili, sotto pena di complicità. Israele ha respinto le accuse come “scandalose”, ma il rapporto – il più autorevole dell’ONU fino ad oggi – rafforza casi pendenti alla Corte Internazionale di Giustizia e segna un punto di svolta, con Pillay che ha annunciato il suo ritiro dalla Commissione a novembre 2025 per motivi di salute e di età.
Riconoscimenti ed eredità: una vita per la pace e l’uguaglianza
La traiettoria di Pillay è costellata di onori: nel 2003 ha ricevuto il primo Gruber Prize per i Diritti delle Donne; nel 2009 è stata indicata da Forbes come la 64ª donna più potente al mondo e ha ottenuto il Golden Plate Award dall’American Academy of Achievement, consegnato da Desmond Tutu.
Ha ricevuto dottorati honoris causa da università come Durham e CUNY, e nel 2025 ha vinto il Sydney Peace Prize per il suo “impegno ininterrotto nella difesa dei diritti umani, della pace con giustizia e dei diritti delle donne e delle comunità marginalizzate”.
Non priva di controversie – dalle accuse di antisemitismo per le sue critiche a Israele a quelle di parzialità etnica sullo Sri Lanka – Pillay ha sempre difeso la sua integrità, affermando: “Il mio lavoro è per la giustizia, non per divisioni”.
La sua eredità è quella di una “combattente intrepida”, come la definiscono i media svizzeri, che ha scalato vertici globali partendo da un township sudafricano. Attraverso la sua voce, ha ricordato al mondo che i diritti umani non sono astratti: sono un obbligo morale e legale, specialmente quando il silenzio costa vite.