Tunisia, i pogrom di Stato sostenuti dall'Italia contro i migranti
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Tunisia, i pogrom di Stato sostenuti dall'Italia contro i migranti

L’Italia sta sostenendo politicamente e ora anche sul piano militare l’autocrate tunisino che ha avviato una caccia al migrante trasformatasi in veri e propri pogrom.

Tunisia, i pogrom di Stato sostenuti dall'Italia contro i migranti
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

14 Luglio 2023 - 14.04


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Globalist lo ha documentato e denunciato in decine di articoli. L’Italia sta sostenendo politicamente e ora anche sul piano militare l’autocrate tunisino che ha avviato una caccia al migrante trasformatasi in veri e propri pogrom. Pogrom di Stato, abbiamo scritto.

Due importanti contributi per fare chiarezza

Scrive su La Stampa Jonas Russ: “Persone subsahariane che scappano da colpi di proiettile sparati ad altezza uomo dalle forze di sicurezza tunisine. Lanci di sassi e pietre da parte di una fetta della popolazione di Sfax contro migranti provenienti da Paesi come Senegal, Camerun, Guinea e Mali. Due ragazzi con vistose ferite alla testa ricoverati in un corridoio dell’ospedale Habib Bourguiba. La Stampa ha potuto verificare alcuni video risalenti a martedì 4 luglio provenienti da Sfax, luogo in queste settimane dove si registrano violenze, aggressioni e deportazioni di massa verso il confine algerino e libico, in quella che si può definire “una caccia all’uomo”. «Per favore venite stasera. Domani il proprietario ha detto che non possiamo più rimanere a casa e ci vuole cacciare. Siamo sedici persone e sono giorni che non usciamo da qui». Le parole sono di Ousmane (nome di fantasia, ndr), 23 anni originario del Senegal. Scrive da Thyna, piccolo sobborgo a 12 chilometri da Sfax. Qui prende forma tutta la violenza che ha scosso una delle zone più popolari della Tunisia. È proprio Ousmane ad avere girato quelle immagini, le prime che mostrano le autorità sparare volontariamente contro persone indifese. Il suo viaggio è cominciato più di due anni fa.

Dopo avere passato le torture delle prigioni libiche, è arrivato in città circa sette mesi fa. Il suo racconto viene interrotto più volte dagli sguardi e dalle parole dei residenti del quartiere, fatto di una strada non asfaltata, poche case e un café di soli uomini: «Alcune di queste persone sono le stesse che ci lanciano i sassi ed entrano in casa con i coltelli per rubarci i telefoni e i soldi. È cominciato tutto lo scorso martedì dopo che è morto un tunisino. Ho visto la polizia sparare proprio qui vicino e so di gente che è rimasta ferita. Il video dove si vedono alcune persone lanciare pietre e aggredirci l’ha girato un mio amico. Lavora nel café accanto e i tunisini non lo toccano. Dei due feriti all’ospedale invece non ho più notizie da allora. Io ho già provato a partire una volta per l’Italia ma la Guardia costiera mi ha intercettato. Ho anche mia sorella che è incinta. Da domani non so più che fare». Per ogni picco di violenza all’apparenza inspiegabile ci sono ragioni specifiche. In questo caso ce ne sono tre. La prima è legata al precario equilibrio economico e sociale che da anni sta interessando la Tunisia. Il costo della vita aumenta ogni giorno che passa mentre diminuisce il potere di acquisto. Una situazione che sta portando il Paese a dichiarare il default finanziario dopo l’estate se non si dovesse trovare l’accordo con il Fondo monetario internazionale da 1,9 miliardi di dollari. Un’instabilità che ha aumentato l’insofferenza nei confronti degli stranieri, in particolare i migranti subsahariani.

La seconda si lega al duro discorso del presidente della Repubblica Kais Saied lo scorso 21 febbraio, quando ha accusato queste persone di compiere «una sostituzione etnica in Tunisia». La terza è una notizia di cronaca risalente a lunedì 3 luglio quando un 38enne tunisino è morto, secondo le ricostruzioni della procura locale, a seguito di un accoltellamento da parte di un migrante di origine camerunense scatenando l’ira di una fetta della popolazione locale. L’altra si è attivata per aiutare in maniera spontanea e disinteressata le vittime di questa repressione. 

Una repressione che di fatto si può definire di Stato. Da almeno il 2 luglio le autorità tunisine sono impegnate in vere e proprie deportazioni da Sfax verso la frontiera con l’Algeria e la Libia, una zona desertica che è stata dichiarata di interesse militare e dove è vietato l’accesso a ogni tipo di organizzazione. Human Rights Watch ha stimato in 1200 le persone, tra cui richiedenti asilo, donne incinte, bambini e neonati che sono state abbandonate a loro stesse in quelle zone senza acqua, cibo o accesso a cure mediche. Alcune sono state poi dislocate in diverse città del sud anche se la società civile registra diverse difficoltà ad accedere a queste persone e si sono già le prime due vittime del deserto. 

Sfax è dunque la sintesi di questa precarietà diffusa. È una delle città dove la crisi economica si fa più sentire. È il luogo anche da dove si parte di più verso la sponda nord del Mediterraneo (nel 2023 la Tunisia è diventato il primo Paese di transito per i migranti superando la Libia). Una precarietà che si può vedere anche solo camminando per il centro cittadino dove centinaia di subsahariani passano le giornate in attesa di capire che sarà del loro futuro. Nel parco di fianco alla medina, dove il verde ha lasciato posto a cumuli di rifiuti di ogni tipo, più di 200 persone originarie del Sudan hanno trovato un rifugio temporaneo. Alcune di loro sono arrivate qui dopo lo scoppio della guerra civile nel loro Paese, tra cui nove ragazze: «Ormai non sappiamo neanche più da quanto siamo qui – racconta una di loro – di giorno ci andiamo a lavare alla moschea qui vicino ma non abbiamo i soldi per comprarci l’acqua o un po’ di pane. La notte poi capita che arrivino i tunisini che vogliono abusare di noi. Abbiamo paura». 

A 20 chilometri a nord di Sfax la precarietà si trasforma in vero e proprio esodo. Nelle campagne colme di ulivi hanno trovato rifugio più di mille persone. La loro presenza resta quasi invisibile tra i campi ma basta fare pochi metri lungo una strada che porta fuori dalla città per imbattersi in un villaggio fatto di poche case e due locali. A occhio nudo si possono contare almeno 200 persone sedute o intente a parlare con i residenti del posto: «Qua siamo tutti pronti a partire – racconta Jordan [nome di fantasia, ndr] dalla Guinea – ci sono anche i siriani. Da una settimana non ho più niente. Ho amici che sono finiti nel deserto che non riesco più a contattare. Altri che sono finiti all’ospedale a colpi di machete. Non ho altre soluzioni». Nel frattempo il domani di Ousmane è già arrivato. È stato cacciato di casa insieme a sua sorella incinta e ai suoi compagni. La sua nuova casa si chiama Bab Jebli, la rotonda principale di Sfax”.

Crimini di Stato. Con l’Italia complice

Di grande interesse è il report di Stefano Bleggi su meltingpot.org: “Il 5 luglio si è tenuto nello spazio “Media & Produzioni” di Sherwood Festival il talk «Violenze della guardia costiera tunisina: osservazioni dal campo», con la partecipazione della ricercatrice Dorra Frihi del progetto Mem Med, appena rientrata da Tunisi, e il ricercatore Luca Ramello, attualmente impegnato sulla frontiera alpina con On Borders. 

Valentina Lomaglio di Melting Pot Europa ha introdotto ricordando quanto sta accadendo in Tunisia in questi ultimi mesi contro le persone migranti e nere, soprattutto dopo il discorso di Kaïs Saïed che si è reso interprete dell’idea cospiratoria di “un accordo criminale preparato dall’inizio di questo secolo per cambiare la composizione demografica della Tunisia“.

Un tema, quindi, di stretta attualità considerati i pogrom in corso a Sfax ( (e non solo) con la deportazione e l’abbandono di migliaia di persone al confine con Libia e l’Algeria, e perché la Tunisia è diventato un Paese centrale per le politiche europee e nazionali di esternalizzazione delle frontiere. 

L’Italia e l’Ue hanno infatti stipulato degli accordi che hanno conseguenze molto concrete e letali: dall’aumento delle intercettazioni nel Mediterraneo, alle pratiche violente della Guardia costiera tunisina, fino alla criminalizzazione dei e delle tunisine, che sono solidali in vari modi con le persone migranti di origine subsahariana, per effetto di una legge che criminalizza l’assistenza nei confronti di chi si trova in condizione di irregolarità. 

E’ il regime di frontiera che oltre a morte e violenze, è stato fatto notare, causa anche dei macroscopici danni economici alle comunità locali, in primis ai pescatori che sono anche criminalizzati e perseguiti in via giudiziaria per i soccorsi e lavorano in un mare sempre più militarizzato; un regime di frontiera che indirizza ingenti somme di denaro al securitarismo e non alla sicurezza sociale delle classi più povere.

«Un grazie obbligatorio alle persone che hanno avuto il coraggio di attraversare il Mediterraneo e anche di raccontare le violazioni dei diritti umani che hanno subito lungo il loro viaggio e in Tunisia. Senza questo coraggio, senza questa presa di parola, non sarebbe possibile essere qui oggi», ha precisato in apertura la redattrice di Melting Pot, esponendo una panoramica sull’evoluzione più recente degli accordi bilaterali fra l’Italia e la Tunisia.

«Tra il 2020 e il 2021 sono stati concessi dall’Italia almeno 24 milioni di euro alla gestione delle migrazioni, soprattutto nell’ambito del progetto di sostegno al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori. Nel 2022 è aumentato il budget arrivando ad almeno 27 milioni stanziati in tre anni. Per cosa? Soprattutto per l’addestramento e il rifornimento di mezzi per fermare i migranti in mare attraverso la Guardia nazionale tunisina. Un altro obiettivo molto importante è legato alle procedure di rimpatrio dall’Italia dei cittadini tunisini senza documenti, attraverso dei voli charter che partono diverse volte a settimana. Si tratta di accordi che sono sotto segreto di Stato, la cui applicazione non può essere monitorata. Anzi, sono molte le denunce delle pratiche violente, anche mortali, con cui la Guardia tunisina effettua le intercettazioni delle imbarcazioni nel Mediterraneo. E sono documentate anche le terribili condizioni a cui vengono sottoposte le persone durante il rimpatrio». 

«Nel 2023 – ha proseguito – l’Italia e la Tunisia hanno vissuto un periodo denso di visite bilaterali e comunicazioni anche telefoniche. Fino a maggio, queste relazioni hanno prodotto la promessa di almeno 10 milioni al governo di Saïed in cambio del pugno di ferro contro i migranti indesiderati che partono verso l’Italia. Poi, a giugno, Giorgia Meloni si è recata più volte, anche a distanza di pochi giorni, in Tunisia, sempre per chiedere maggiore impegno del governo tunisino nel contenimento dei flussi migratori. Il Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (Ftdes), con cui abbiamo potuto svolgere gran parte delle attività di ricerca di cui parliamo, ha commentato queste negoziazioni dicendo che l’Europa non considera la Tunisia come un Paese che ha bisogno di cooperazione sulla base di valori democratici come i diritti fondamentali e le libertà, ma soltanto come una frontiera esterna che ha bisogno di maggiori strumenti per contenere la migrazione, con l’obiettivo che nessuno riesca a raggiungere l’Europa. Quali sono stati concretamente i materiali, anche forniti dall’Italia alla Tunisia, per l’implementazione di questi accordi? Tra gli altri, la rimessa in funzione di sei motovedette italiane già in possesso della Guardia nazionale, il rifornimento e la fornitura di un laboratorio di analisi del DNA che è stato poi utilizzato dal governo tunisino per analizzare quello prelevato con la forza agli studenti subsahariani dopo le manifestazioni, un sistema di rilevamento della presenza umana installato al porto di Tunisi e vari mezzi terrestri, fra cui minibus o ambulanze, pick-up e mezzi speciali per il trasporto dei detenuti».

Valentina Lomaglio ha concluso l’introduzione chiarendo che gli accordi hanno conseguenze concrete anche sulle dinamiche interne della società tunisina, «quindi la xenofobia è a tutti gli effetti uno strumento per il governo tunisino per mettere in campo il pugno di ferro che richiede l’Italia, ma anche un maggior controllo interno in un contesto di crisi sistemica, quindi in un Paese in cui mancano acqua, farina e riso. Il populismo riesce, appropriandosi tra l’altro di parole d’ordine e concetti del sovranismo italiano ed europeo, a dividere gli ultimi, per indirizzare la conflittualità sociale lontano da sé».

Dorra Frihi, da pochi giorni tornata dalla Tunisia, ha confermato come il contesto sia diventato molto pericoloso per una certa categoria di persone, soprattutto dopo il 21 febbraio, dove si è assistito proprio a un incitamento alla violenza e alla diffidenza nei confronti dello straniero che è stato considerato come una minaccia, un pericolo per la nazione. 

«Pur essendo febbraio, ho visto un aumento esponenziale delle partenze, soprattutto di persone non bianche e non tunisine. Questo perché si sono ritrovate dall’oggi al domani senza poter avere diritto alla casa, a un luogo dove stare, senza poter lavorare e perfino mangiare, in un contesto in cui sono volontariamente rese irregolari. Infatti, non ci sono delle leggi che contribuiscono a regolarizzare le persone e che quindi si trovano forzatamente irregolari». 

Sono così aumentate le persone decise a partire e nel contempo i racconti e le testimonianze sulle pratiche violente della Guardia costiera. «Abbiamo il privilegio, tra i molti privilegi, di poterne parlare. E poter dare voce a tutte quelle persone che sono state vittime di tutte queste pratiche violente che avvengono nel Mar Mediterraneo». 

«La Tunisia attualmente sta facendo il cane da guardia, il lavoro sporco dell’Europa, perché è in una situazione anche di instabilità politica, economica, sociale. Nel Paese non c’è la farina, si fanno le file per prendere il pane, non c’è l’acqua. Manca il riso e il caffè, non c’è la benzina. Una situazione instabile, che trova una finta salvezza economica nei finanziamenti europei che andranno – così dicono – a finanziare qualche scuola e qualche altro piccolo progetto. Gli accordi con l’Italia e l’Europa vengono divulgati come accordi che consentiranno lo sviluppo dell’economia», ha spiegato.


La ricercatrice ha poi messo in luce come vengono trattati i corpi delle persone decedute in mare, abbandonati in decomposizione nell’obitorio di Sfax oppure sotterrati in fosse comuni senza rispetto per la morte, senza nemmeno la possibilità per i propri cari di piangere un corpo e seppellirlo in modo dignitoso.  

Grazie al lavoro effettuato sul campo, dove ha raccolto testimonianze delle persone in movimento sopravvissute in mare e l’apporto positivo e fondamentale dei pescatori, in un luogo che per sua natura è difficilmente osservabile, Luca Ramello ha illustrato la lista delle modalità con cui la Guardia costiera tunisina effettivamente blocca le barche.

«Il primo livello di violenza, il più indiretto, è quello della omissione di soccorso. Ci sono casi in cui sostanzialmente le persone muoiono per ipotermia o per annegamento, abbandonati, nonostante siano stati visti dalla Guardia costiera. Oppure ci sono molti casi in cui la Guardia costiera non identifica la barca in mare e non dà l’annuncio della barca in difficoltà per il salvataggio. Riporto le parole di un sopravvissuto al naufragio: “L’acqua ha cominciato ad entrare nella barca e abbiamo deciso di chiamare i soccorsi. Abbiamo spento il motore e abbiamo aspettato. Erano circa le due di notte. Dalle nove è andato tutto bene fino alle due, siamo naufragati alle tre e siamo rimasti in acqua fino alle otto. Abbiamo chiamato più volte i soccorsi, hanno risposto al telefono ma non sono mai venuti. Poi sono arrivati i pescherecci tunisini e ci hanno superato. C’è stato solo un pescatore tunisino che ci ha visto da lontano ed è venuto a salvarci. Non ci ha salvato tutti, c’erano 25 morti. Il pescatore ha preso solo una persona morta che era accanto alla barca. Ha preso un corpo e poi la Marina è andata a cercare gli altri corpi. Ce n’erano quattro”».

L’ulteriore modalità con cui si bloccano le persone è attraverso la minaccia e i tentativi o gli atti di estorsione, usando addirittura fucili, armi e bastoni che non sono ovviamente adatti ad un contesto di salvataggio, ma sono adottati per “placare il panico”, costruendo così artificiosamente la pericolosità del mare. Un’altra consiste nella rimozione dei motori che sono poi rivenduti a coloro che organizzano i viaggi. Anche questa pratica viene effettuata mettendo a repentaglio la vita delle persone che sono intercettate da barchini molto rapidi, anche fino a otto, che ruotano attorno all’imbarcazione generando pericolosi moti ondosi oppure la inseguono speronandola, provocando così molti naufragi. 

Queste alcune testimonianze raccolte: 

Quando sono arrivati alla nostra barca, ora era la loro barca che stava mettendo acqua nella nostra barca e il motore che stava affondando, è dalla parte del motore che sono arrivati. L’acqua stava entrando, noi togliamo l’acqua mentre andavamo avanti. La barca ha iniziato ad affondare. Non era uno Zodiac, un gommone, era una barca di ferro. La barca si è rovesciata. Tutti stanno gridando. Ora dieci persone sono morte. Eravamo in 45, hanno potuto salvare 35 persone. Dieci persone sono morte e sono scomparse. Disperse”. 

Quando la Guardia nazionale ci attaccava da destra, noi andavamo a sinistra e viceversa, come in uno zigzag, poiché hanno motori più potenti. E’ come se giocassero con noi. Ci mandano l’onda addosso per farci cadere. Il mare e il tempo erano buoni. Se fosse stato il tempo ce l’avremmo fatta. Continuavano a seguirci, poi si sono scontrati con la nostra barca che si è rovesciata ancora”. 

Chiamano la Guardia nazionale, ci colpiscono con i bastoni, ci picchiano con i bastoni di ferro. Non solo il capitano. C’era una madre tra noi. Gridava e loro gridavano “Papà, perdonami”. Con i bastoni di ferro picchiavano la gente e poi si fermavano sulle barche e dicevano siamo obbligati”.

«Non esiste nessuno che sappia quanti naufragi ci sono stati in quella giornata – ha sottolineato il ricercatore -. Dobbiamo immaginarci che ogni volta che ci sono quattro naufragi, ce ne siano stati 40 e che magari una percentuale di questi possa essere conseguenza di queste strategie. Azioni che hanno causato tragedie dalle quali nessuna persona sopravvive. Sono i numeri invisibili che si aggiungono ai naufragi provocati e invisibili, nonostante avvengano in uno dei punti marini più trafficati a livello mondiale e più controllati da Frontex».

Il talk si è concluso ascoltando il discorso di un cittadino tunisino pronunciato a Zarzis in chiusura del sit-in organizzato lo scorso 6 febbraio dal movimento 18/18. La protesta era stata promossa per denunciare le responsabilità sulla morte di 18 ragazzi tunisini naufragati il 21 settembre 2022 e ricordati come martiri per la libertà di movimento. Una vicenda emblematica, dove la Guardia costiera non ha iniziato le procedure per i salvataggi e i pescatori hanno scoperto alcuni corpi sepolti dalle autorità tunisine nel cimitero degli sconosciuti di Zarzis, senza dire niente alle famiglie, senza interpellare.

Non fosse stato per i figli e le figlie di Zarzis, in Tunisia e all’estero, se non fosse stato per i pescatori di Zarzis, per l’associazione dei pescatori, se non fosse stato per tutti i cittadini di Zarzis, per ogni ragazzo, in ogni scuola, in ogni liceo, per ogni donna, il sit-in non avrebbe potuto continuare. Questa città ha portato avanti un movimento storico, ha difeso la sua dignità e il suo onore, si è posizionata contro l’insabbiamento della verità, contro la obliterazione dei fatti e contro la sepoltura dei suoi abitanti come degli stranieri. È arrivata alla verità da sola, senza alcun aiuto da parte dello Stato. Abbiamo fatto tutti i tipi di sit-in, scioperi e mobilitazione. Abbiamo difeso la nostra dignità e i nostri diritti dicendo che i nostri figli e le nostre figlie sono martiri. Oggi uno di loro avrebbe compiuto 15 mesi di vita. E’ la politica repressiva ingiusta degli accordi tra lo Stato e l’Unione europea che ha reso questo Paese un grande carcere per i suoi figli. Un accordo che ha reso il mare un cimitero per i migranti tunisini e non. Questa politica repressiva e ingiusta delle migrazioni deve essere cambiata. Lo diciamo, crediamo nelle madri. E diciamo che c’è stato un crimine. Non è vero che i nostri figli sono morti per un naufragio naturale, ma sono stati uccisi, annegati e i resti che abbiamo trovato dei martiri sepolti. Non è stato un naufragio causato da un buco nella barca. No, è stato un omicidio di Stato.18 persone che sono morte come martiri della dignità, martiri della libertà, martiri della libertà di movimento. Gli europei vengono qui in 5 minuti e i tunisini devono fare un visto. Fino a quando non glielo concedono la migrazione continuerà, così come continuerà la harga 1 fino al momento in cui sarà richiesto un visto, fino al momento in cui ci saranno politiche ingiuste, oppressive. Relazioni non simmetriche che permettono che un tunisino come gli altri africani, perché siamo africani, muoia a dieci anni, mentre un europeo in 5 secondi arriva qui. Continueremo la nostra battaglia”.

E Globalist continuerà a essere a loro fianco.

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