Migranti: in memoria di Fati e Marie, lasciate morire nel deserto da un autocrate criminale
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Migranti: in memoria di Fati e Marie, lasciate morire nel deserto da un autocrate criminale

In memoria di Fati e Marie. Perché abbiamo da morte quel briciolo di giustizia che è stato negato loro in vita.

Migranti: in memoria di Fati e Marie, lasciate morire nel deserto da un autocrate criminale
Fati Dosso e la figlia Marie
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

30 Luglio 2023 - 14.43


ATF

In memoria di Fati e Marie. Perché abbiamo da morte quel briciolo di giustizia che è stato negato loro in vita.

Per non dimenticare

Ne scrive Francesca Del Vecchio per La Stampa: “Mentre la politica estera italiana a Roma si aggrappa a Kais Saied, presidente tunisino, per controllare gli arrivi dei migranti dal Mediterraneo, a Milano si protesta per chiedere giustizia per Fati Dosso e sua figlia Marie, morte di fame e di sete nel deserto al confine tra Libia e Tunisia alcuni giorni fa. Il sit-in, organizzato da Refugees in Libya, dal Collettivo degli Attivisti dei Diritti Tunisino e Mediterranea Saving Humans, insieme ad attiviste e attivisti antirazzisti milanesi, si è svolto di fronte al Consolato tunisino a Milano, in Viale Marche, sotto gli occhi attenti di numerosi agenti della Polizia e della Digos. La protesta aveva come obiettivo quello di chiedere alle autorità libiche e tunisine che «le salme di Fati e Marie vengano riportate in Costa d’Avorio, loro Paese d’origine, e che sia fatta luce sulle responsabilità che sono dietro alla loro morte».

Fati, 30enne ivoriana, ha vissuto 5 anni in Libia dopo essere fuggita dal suo Paese. In Libia aveva conosciuto suo marito Mbengue, camerunese, e dalla loro unione sei anni fa era nata la piccola Marie. «Dopo aver tentato più volte di attraversare il Mediterraneo, due anni fa Fati e la sua famiglia hanno deciso di spostarsi in Tunisia nella speranza di trovare un luogo più tranquillo per vivere – spiega in una nota Mediterranea Saving Humans – Così non è stato perché dall’inizio del 2023, dopo il discorso d’odio del presidente Saied, le aggressioni contro le persone di origine subsahariana residenti nel Paese si sono moltiplicate».

Al termine del sit-in, i referenti delle tre associazioni hanno consegnato al Consolato una lettera indirizzata alle autorità tunisine ed europee, un «appello urgente per la giustizia e i diritti umani in merito alle espulsioni illegali e la tragica perdita di vite umane».

Nella lunga lettera, si legge: «Ci scoraggia profondamente constatare che l’Europa ha concluso un accordo milionario con la Tunisia per gestire la migrazione e dissuadere le persone nell’attraversare il Mar Mediterraneo. Questo accordo ci preoccupa seriamente poiché è noto come la Tunisia violi i diritti umani. Le conseguenze di questo accordo sono evidenti: la Tunisia ha già espulso almeno 3.000 persone in poche settimane. […] Condanniamo la politica migratoria europea e il suo accordo con la Tunisia, che ha portato a queste gravi violazioni dei diritti umani. Chiediamo alla Commissione europea, al Governo olandese e a quello italiano di non subordinare qualsiasi sostegno alla Tunisia al rispetto dei diritti umani da parte delle autorità tunisine e di interrompere qualsiasi forma di collaborazione fino a quando queste violazioni continueranno. Inoltre, condanniamo fermamente il discorso razzista pronunciato dal presidente tunisino Kais Saied all’inizio di quest’anno, il quale ha provocato disordini, odio e perdite di vite umane tra gli Africani di origine subsahariana».

A questo accorato appello si sono uniti anche due ragazzi rifugiati che fanno parte di Refugees in Libya: David Yambio e Khalid Abaker. David ha lasciato il Sud Sudan nel 2016, quando è iniziata la guerra. Dopo due anni di migrazione attraverso il Ciad, è arrivato in Libia nel 2018. Da lì ha provato a entrare in Europa facendo regolare richiesta di asilo politico per quattro volte. «Per tutte e quattro le volte sono stato respinto», racconta in un inglese sicuro e commosso. «Sono riuscito ad arrivare per le vie irregolari nel giugno. È solo grazie all’associazione se non sono morto e se la mia storia ha avuto un esito positivo». Khalid, invece, è in Italia dal 2016: arriva dal Sudan da cui è scappato perché oppositore del governo di Omar al-Bashīr. Ha studiato statistica all’Università del suo Paese e ora sta proseguendo i suoi studi – mentre lavora in un’azienda – all’Università Bicocca di Milano. «Sono stato prigioniero in Libia per pochi mesi. Ho provato ad attraversare il mare ma andò male. Non avevo più soldi per riprovarci. Per questo sono tornato di nascosto in Sudan». Khalid parla italiano, la sua famiglia riuscita a venire in Italia con il ricongiungimento familiare e vive a Vigevano (Pavia). «La nostra protesta di oggi serve per far capire innanzitutto perché la gente scappa dall’Africa. Altrimenti non si hanno gli strumenti per giudicare. E poi per chiedere che quello che è accaduto a Fati e Marie non accada più a nessuno».

Una denuncia inascoltata

L’Ong Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes), e oltre 20 altre Ong locali e internazionali, hanno denunciato in una nota congiunta, del 2 luglio, che le forze di sicurezza tunisine stanno procedendo a “deportazioni forzate” di migranti.

Secondo la nota “un gruppo di 20 migranti e richiedenti asilo provenienti dall’Africa sub-sahariana è stato deportato al confine tunisino-libico (vicino a Ben Guerdane) la mattina del 2 luglio da soldati e agenti della Guardia nazionale tunisina.Il gruppo ha bisogno di assistenza urgente. In totale, il gruppo comprende sei donne (tra cui due incinte di cui una vicina alla data del parto), una ragazza camerunese di 16 anni e 13 uomini. 
Due degli uomini sono richiedenti asilo camerunesi registrati presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). I membri del gruppo sono di nazionalità ivoriana, camerunese, maliana, guineana e ciadiana”. “Queste persone – secondo la nota – sono state arrestate per la prima volta sabato 1 luglio in una casa a Jbeniana, a circa 35 km da Sfax. 
Affermano che le autorità (polizia, guardia nazionale e militari) hanno fatto irruzione nella casa in cui si trovavano. 
Le autorità hanno arrestato le 48 persone presenti in casa e le hanno portate al commissariato di Jbeniana. I loro passaporti/documenti di identità sono stati esaminati e le informazioni registrate”. “La polizia avrebbe poi diviso le 48 persone in due gruppi. Il primo composto da 28 persone, con cui sono in contatto, non sa cosa sia successo all’altro gruppo. Il gruppo di 28 persone è stato trasferito a Ben Guerdane, dove secondo quanto riferito sono stati spostati tra tre basi della guardia nazionale e basi militari, picchiati e maltrattati prima di essere lasciati al confine libico”. 
La Guardia nazionale ha arrestato otto persone (un ragazzo minorenne e sette uomini) e ha deportato le restanti venti persone in Libia. I loro cellulari sono stati rotti e i loro soldi rubati. Il 4 luglio, un secondo gruppo di 100 migranti e rifugiati è stato deportato nello stesso luogo verso il confine libico. Il gruppo comprende diverse nazionalità tra cui ivoriano, camerunese, guineano e comprende almeno 12 bambini (di età compresa tra 6 mesi e 5 anni). 

“Queste espulsioni – scrivono le Ong – fanno eco ad altre espulsioni forzate effettuate tra Libia e Algeria e denunciate da migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana. A questo si aggiungono ondate di arresti e violenze contro migranti e rifugiati nei giorni scorsi nella città di Sfax. Le organizzazioni firmatarie denunciano le violazioni dei diritti umani subite da migranti, richiedenti asilo e rifugiati e chiedono alle autorità tunisine di fornire chiarimenti su questi fatti e di intervenire con urgenza per fornire cure di emergenza a queste persone”.

Parole e fatti.

O se voletà realtà e narrazione che quella realtà manipola, distorce, violenta, per biechi fini politici ed elettorali

Illuminante in proposito è la riflessione, su Avvenire, di Antonio Maria Mira: “Parole e fatti. Mentre esponenti della maggioranza, e anche del governo di destra/centro, continuano a tuonare contro il rischio sostituzione etnica dei migranti, contro l’invasione, contro i “clandestini”, contro le Ong che favorirebbero i trafficanti, nei fatti il governo si comporta in modo diametralmente opposto. Realpolitik? Vera convinzione o la cruda realtà su cui fare i conti senza speculazioni e strumentalizzazioni? I numeri ci aiutano. 

Dall’inizio dell’anno sono state soccorse e poi sbarcate 70mila persone, molto più del doppio delle 30mila dello stesso periodo del 2022. Tanti, troppi anche per gli instancabili uomini della Guardia costiera, ormai in mare h24, per tutti i giorni della settimana per soccorrere e salvare migliaia di persone, soprattutto provenienti dalla Tunisia, dalla Cirenaica e dalla Turchia. Così si chiede e si coordina l’intervento delle imbarcazioni delle Ong. Non più un solo soccorso e poi dritti al porto indicato dalle autorità italiane, come previsti dal cosiddetto “decreto Cutro”, ma 4 (Geo Barents), 5 (Humanity1) e addirittura 6 (Open Arms) soccorsi, coordinati e addirittura richiesti dalle nostre istituzioni, dal Centro di ricerca e soccorso di Roma. Anche Open Arms, che nell’agosto 2019 venne invece tenuta bloccata per giorni, impedendo lo sbarco, vicenda per la quale il ministro Salvini è sotto processo davanti al Tribunale di Palermo per sequestro di persona. Oggi, invece, l’Ong spagnola è addirittura chiamata. L’importante è soccorrere e salvare, evitare tragedie e stragi, come quelle di Cutro e Pylos dove le Ong non c’erano. Certo resta l’assurdità dell’assegnazione di porti lontani per gli sbarchi delle Ong. Ma si torna ad applicare le leggi del mare che salvano tutti e sempre, non quelle dei muri che respingono e uccidono. Nessuno lo ha detto esplicitamente, nessuno forse lo ammetterà mai, ma i fatti parlano da soli. Così come parlano le 18 barche soccorse sulla rotta turca, quella della terribile strage di Cutro, centinaia di persone fatte sbarcare in sicurezza sulle coste calabresi. 

Fatti. Come il nuovo decreto flussi, con numeri mai visti, che riconosce la necessità dei lavoratori immigrati. Lo richiede il nostro sistema economico, i nostri imprenditori. «Da parte di qualcuno c’è la speranza di sostituire gli italiani che non vogliono fare certi lavori con una immigrazione da sfruttare» aveva detto pochi giorni fa il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ospite di Fenix, la festa dei giovani di Fdi. Il decreto flussi dice invece l’esatto contrario. Concretamente. Perché c’è davvero bisogno degli immigrati, e non solo per i lavori più umili e non specializzati. Altro che immigrati che rubano il lavoro agli italiani, altro che sostituzione etnica. I lavoratori africani e asiatici servono all’Italia come il pane. Colpisce poi che quote importanti di ingressi siano riservate a Marocco, Tunisia e Costa d’Avorio. Proprio dalla Costa d’Avorio quest’anno sta arrivando la quantità maggiore di migranti, ben 8mila sul totale di 70mila. Arrivano dalla Tunisia, assieme a migliaia di subsahariani e 5mila tunisini. Non è un caso che la premier Meloni e vari ministri siano stati più volte a Tunisi per cercare un accordo che freni questo flusso. E il ministro dell’Interno, Piantedosi è volato anche in Costa d’Avorio per gli stessi motivi. Promesse di aiuti in cambio di muri. O in cambio di rimpatri perché ritenuti “Paesi sicuri”. 

Ora il decreto flussi sgretola quei muri, li scavalca. Una buona notizia, come quella della ritrovata collaborazione con le Ong. Soprattutto se non sarà solo frutto di emergenze, ma l’inizio di un modo civile e efficace di trattare il tema epocale delle migrazioni. Con al centro più i diritti che la difesa dei confini”.

Una intervista importante

E’ quella a firma Orlando Trinchi per TPI al professor Hamadi Redissi, tra i più autorevoli scienziati della politica tunisini Classe 1952, Redissi è Professore di Scienze Politiche all’Università di Tunisi, nonché autore di numerosi libri e studi.

All’intervistatore che gli chiede se la Tunisia può definirsi un Paese sicuro, il professor  Redissi risponde così: “Non lo penso per diverse ragioni. Prima di tutto, la Tunisia, come dichiarato dal suo Presidente, rifiuta di giocare il ruolo di gendarme. In secondo luogo, il Paese non è sicuro neanche per sé stesso, a causa del clima di agitazione politica e dell’acuta crisi economica che colpisce soprattutto le classi popolari e medie. Infine, le clausole relative al “Paese sicuro”, quali figurano nell’accordo concluso tra l’Unione europea e la Turchia nel 2016, sono difficilmente realizzabili in Tunisia: tollerare, anche provvisoriamente, migranti respinti dalle coste italiane in appositi accampamenti, consentire alle Ong di venire in loro aiuto, estendere il diritto d’asilo e rivedere la legislazione del soggiorno temporaneo, accordare loro l’accesso al lavoro… Difficile immaginarlo. Già il Paese gestisce male ventimila subsahariani, registrando un aumento della xenofobia, dello sciovinismo e del razzismo che colpisce le masse ma anche, purtroppo, una parte delle élite. Vergognoso. Esiste un Partito Nazionale Tunisino che sostiene che i migranti siano 700mila e invita il Capo dello Stato a prendere provvedimenti e rimandarli indietro manu militari dalla Tunisia, “minacciata da una colonizzazione di altri popoli”».

Quanto al giudizio sull’operato del governo del presidente Kais Saied, il giudizio del politologo tunisino è tranchant: “Saied governa da solo. I suoi ministri sono dei tecnocrati senza autorità. Hanno trascorso più di un anno a negoziare con il Fondo monetario internazionale sulla base di una tabella di marcia che modificano rapidamente su decisione del Presidente. Suo tallone d’Achille: Saied vuole piacere. È un populista tronfio di retorica. Non discute con le sue forze sociali e con i partiti, ma impone soluzioni che non dureranno a lungo senza un clima politico sano, in assenza di dialogo e democrazia”.

Qualcuno lo spieghi alla presidente Meloni. 

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